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I grandi della storia

1° marzo 1938

Da Gardone, la notizia subito corse l’Italia: Gabriele D’Annunzio era morto

Con Gabriele D’Annunzio moriva l’ultimo poeta civile italiano: da quel momento, la poesia si sarebbe ritratta negli scantinati del sentimento e della retorica. Forse, più onesta, ma certamente meno universale e stentorea

Erano di poco passate le otto di sera del primo marzo del 1938, quando il servente, data l’ora di cena, si decise a disturbare il poeta, che stava lavorando nel suo studio. Come sempre. I rami dei sempreverdi ondeggiavano alla tenue brezza del lago; le urne di pietra sembravano attendere, silenziose, al colmo del colle, un segno. Ma il poeta non rispose: aveva lasciato questa terra, partendo per il suo ultimo volo. Il più insidioso, il più definitivo. Da Gardone, la notizia subito corse l’Italia: D’Annunzio era morto.

Oggi, che la memoria del Vate ha subito infiniti oltraggi e ridimensionamenti e che la sua immagine è stata deturpata, fino a trasformarsi in una grottesca caricatura, appare difficile immaginare la sensazione che quella notizia potè suscitare, dai vertici del Paese, fino alle più remote propaggini d’Italia. Certo, D’Annunzio era stato, in egual misura, amato e odiato, vituperato ed invidiato: ma ignorato giammai. Bene o male, aveva riempito della sua ingombrante volontà le pagine dei giornali e le chiacchiere dei caffè: per le donne, le spese folli, l’eccentricità, come per Buccari, Trieste, Vienna. Il suo vivere inimitabile era stato enormemente imitato, talora scimmiottato: la sua posa da guerriero aveva infastidito i fanti, ma più ancora gli avversari, che sul suo capo avevano perfino messo una taglia.

Insomma, con Gabriele D’Annunzio moriva l’ultimo poeta civile italiano: da quel momento, la poesia si sarebbe ritratta negli scantinati del sentimento e della retorica. Forse, più onesta, ma certamente meno universale e stentorea. Fu vera gloria? Che importa, in fondo: fu, indubitabilmente gloria. Sulla verità delle cose umane, anche chi scrive è piuttosto scettico. Forse, la vera gloria è solo quella di cui scrive il Manzoni, dopo aver posto la domanda fatidica: quella dei cieli. Se, tuttavia, esiste una gloriuzza terrena, a quella, sicuramente, D’Annunzio attinse a piene mani. E la pagò, con un’invidia feroce e tenace, da parte dei critici e degli insegnanti del secondo dopoguerra, che ne decretarono una “damnatio memoriae” almeno altrettanto eccessiva di quanto era stata la sua esaltazione precedente. Perché va detto: l’arte dannunziana può piacere o non piacere (a me, ad esempio, raramente piace e mia madre addirittura lo detestava), ma l’influenza di D’Annunzio su decenni di cultura italiana ed europea è innegabile. Pure, di lui, oggi, si ricordano aneddoti piccanti e qualche passo tra i più ovvi: le tamerici salmastre e le sere fiesolane, dimenticando tante e tante pagine bellissime. Sic transit gloria mundi, dicevano gli antichi. Solo che certe glorie passano prima e altre resistono più a lungo.

La ragione prima di questo oblio che pare essere calato sulla figura del Vate credo risieda nel suo marchio d’infamia, imperdonabile agli occhi di certe vestali della correttezza letteraria: essere giudicato fascista. Anzi, essere individuato come una sorta di DNA del fascismo. Eppure, per restare in un ambito di estrema celebrità, Pirandello fu certamente più fascista di lui: prese, anzi, la tessera in quel 1924 in cui tanti le gettavano, ischifiti dai retroscena del delitto Matteotti. D’Annunzio era tesserato, è vero, dal 1920: ma ai fasci di combattimento fiumani e, se permettete, c’è una discreta differenza. Con Giordano Bruno Guerri, custode delle memorie dannunziane del Vittoriale e grande conoscitore del Poeta, convenimmo sul fatto che era stato il fascismo ad essere decisamente dannunziano, nei suoi aspetti estetici, e non viceversa. Molti sono gli elementi a favore di un’anomalia di D’Annunzio, rispetto al pecorume: il dare a Mussolini del beccaio o del mascheraio, per dirne una. Ma, soprattutto, la certezza che uno come D’Annunzio non avrebbe mai accettato di essere gregario in un movimento di cui si sentiva l’ispiratore.

Perché D’Annunzio era un ultralibertario: non un imbavagliatore. Un cantore della bellezza e non del grigiore del conformismo. Forse, oggi, sarebbe tempo di recuperarne la figura e di studiarla con coscienza, senza ira, per dirla con Tacito: scartandone le insopportabili ridondanze, ma apprezzandone le genialità e, soprattutto, la fatica. Perché D’Annunzio amava apparire un creatore estemporaneo e privo di disciplina, ma era, in realtà uno studioso serissimo e un serissimo lavoratore. Prova ne sia che, quel primo marzo di ottantasei anni fa, non morì mentre prendeva il sole in Versilia, ma mentre lavorava, nel suo Vittoriale, con la sua solita assidua applicazione. Perciò, forse, è finito il tempo dell’invidia o dell’incenso: forse, è venuto il momento di cercare di capire. E di studiare.

marco cimmino

 

* Marco Cimmino è uno storico bergamasco, classe 1960. Specializzato nello studio della guerra moderna, fa parte della Società Italiana di Storia Militare. Ha all’attivo numerosi saggi storici, prevalentemente sulla Grande Guerra e collabora con diverse testate, nazionali e locali. Per Bergamonews ha curato, in precedenza, una storia a puntate della prima guerra mondiale e una storia dell’Unione Europea.

 

 

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