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Giovani e lavoro

La prof Origo: “Oggi i ragazzi danno più valore al tempo libero. 1600 euro per un cameriere? Non è poco”

La docente ordinaria di Politica economica e docente di Economia del lavoro dell’Università degli Studi di Bergamo: "Questa è la prima generazione che entra nel mercato del lavoro con condizioni peggiori rispetto a quelle dei propri genitori. Questo ci deve preoccupare"

Bergamo. La mancanza di personale lavorativo, specialmente giovane, continua ad essere un tema sensibile. Ma cosa sta succedendo al mercato? Il rapporto dei giovani con il lavoro è davvero cambiato? Sotto determinati aspetti sì secondo Federica Origo, professoressa ordinaria di Politica economica e docente di Economia del lavoro dell’Università degli Studi di Bergamo.

Professoressa, i giovani oggi sembrano lanciare un nuovo messaggio all’economia: spesso lasciano o rinunciano al posto fisso preferendo occupazioni che garantiscono più spazio alla persona e al tempo libero. Che cosa è successo? È stata la pandemia a tracciare questo cambiamento?

Credo che fosse già in atto un cambiamento generazionale. Quello che mi sembra di percepire, parlando con chi fa recruiting ma anche con tanti studenti e studentesse, è che c’è una maggiore attenzione dei giovani alla ricerca di posti di lavoro di qualità. Una qualità che si traduce in una migliore retribuzione ma anche nella stabilità del posto di lavoro e soprattutto nella possibilità di conciliare l’attività professionale con la vita privata. I famosi millennials sembrano avere valori diversi rispetto alle generazioni precedenti. La teoria economica in questo senso ci spiega che esiste un cosiddetto salario di riserva sotto il quale una persona non è disposta ad accettare, anche in base a come considera il proprio tempo libero. Di conseguenza se si dà grande valore al tempo libero si tenderanno ad accettare posti di lavoro che offrono una retribuzione più alta. Il grosso cambiamento credo stia proprio qui, nel dare valore maggiore al tempo libero, cosa che la mia generazione non ha fatto. Faccio parte di quella generazione che concepiva il proprio tempo libero come qualcosa di sacrificabile all’inizio della propria carriera.

Ha parlato di un salario minimo accettabile dai giovani. A quanto ammonta?

C’è un’interessante ricerca promossa dalla Fondazione Toniolo nel 2014 che mostra come per la maggior parte dei giovani a 35 anni, quindi un’età non proprio di ingresso nel mercato del lavoro, esiste un salario minimo accettabile che si aggira tra i 1.500 e i 2.000 euro. Ma parliamo di prima del Covid. Sarebbe interessante chiederlo oggi ai giovani, per vedere se è cambiato qualcosa.

Uno stipendio di 1.600 euro per fare il cameriere (leggi qui l’appello di un ristoratore) quindi non è poco.

È vero che siamo il paese con i salari più bassi in Europa e anche che un lavoro come cameriere ha caratteristiche diverse da quelle di un lavoro in ufficio, ma 1.600 euro è spesso anche un salario di ingresso di un laureato nel mercato del lavoro, quindi no, non è poco.

 

federica origo
Federica Origo, professoressa dell'Unibg

 

Di recente Bergamo è stata valutata la provincia con il tasso di disoccupazione giovanile più basso in Italia (pari al 4.9%). È un dato rincuorante o ci dice altro?

In generale un tasso di disoccupazione così basso, che per un economista del lavoro indica una situazione di piena occupazione, è un segnale che il mercato ha problemi a trovare persone disponibili a lavorare, inclusi i giovani. C’è stato un aumento della domanda di lavoro molto superiore rispetto all’offerta e a quello che potevamo prevedere. Tutto questo è ancora più rilevante in un contesto così dinamico come quello di Bergamo, che rende ancora più difficile trovare persone disposte a coprire i posti vacanti.

Il mondo dell’impresa si aspettava una reazione simile? Come sta reagendo?

Mi sembra che le aziende non fossero pronte con riferimento a un particolare aspetto, sul quale infatti alcune si stanno opponendo, che è la richiesta di lavorare molto da casa. Questo sì che è un effetto del Covid. Molte aziende mi hanno riportato come ai colloqui una delle prime cose che i giovani chiedono è quanti giorni possono lavorare in smartworking. Per le aziende questo è un problema, perché un giovane nei primi anni di lavoro si forma in azienda, nell’ambiente di lavoro insieme ai colleghi. Anche alle macchinette del caffè. Molte imprese sono tornate a limitare o togliere lo smartworking per evitare questo effetto. Le aziende sono preoccupate, così come sono preoccupate dei giovani che accettano un impiego e dopo poco rinunciano, spesso senza avere un’alterativa, perché vanno in burnout. Questo denota anche un problema nei ragazzi a far fronte alle prime difficoltà che si presentano loro nel lavoro.

Crede che bisognerà trovare un compromesso fra la richiesta di più lavoro agile dei giovani e le esigenze delle aziende?

Probabilmente sì, e una soluzione molto specifica in base al singolo settore produttivo e alla dimensione dell’impresa. Non c’è una ricetta unica che possa andare bene per tutti, ma in generale vedrei bene un modello in cui lo smartworking aumenta nel corso del ciclo di vita lavorativa. Per cui meno smartworking in età giovanile e di più quando ormai si ha consolidato la propria posizione in azienda, le proprie competenze e il proprio network. Il network è un punto essenziale, una figura di 40/50 anni ormai ha consolidato la propria rete di contatti e può permettersi di lavorare da casa senza grossi costi in termini di relazioni professionali. L’importante è che i giovani capiscano che la presenza in azienda è fondamentale. È vero che questo comporta inizialmente delle rinunce nella vita privata, ma avrà poi dei ritorni importanti. Ad ogni modo, abbiamo fatto sondaggi tra i giovani sulla quantità di lavoro agile richiesto: è difficile che un lavoratore o una lavoratrice vada oltre i 2, massimo 3 giorni di lavoro in smart.

Oltre al dare più importanza al proprio tempo libero crede che i ragazzi oggi cerchino di far valere di più che in passato le conoscenze e le competenze acquisite nel loro percorso di studi anche in termini di retribuzione?

Se con questo intendiamo che un giovane laureato non voglia fare il cameriere anche se pagato 1.600 euro sono d’accordo e penso che sia giusto così. Bisogna però anche considerare che siamo un paese con un elevato problema di sovraistruzione. I giovani si trovano spesso a fare lavori che richiedono titoli di studio più bassi di quelli che hanno conseguito. In questo caso è giusto che il giovane non accetti qualunque salario. Ma un minimo di spirito di adattabilità bisogna averlo. Sono convinta che i giovani di oggi diano valore alle loro competenze, ma bisognerebbe evitare che questo diventi una richiesta rigida. La conseguenza è che più si aspetta ad entrare nel mercato del lavoro più le nostre conoscenze saranno obsolete. L’Italia è il paese con la durata più lunga del periodo tra la fine degli studi e il primo lavoro. In media un giovane italiano impiega 3 anni per entrare nel mercato, un tedesco un anno.

Il reddito di cittadinanza viene spesso messo sotto accusa, secondo lei è una variabile che ha modificato il rapporto con il mondo del lavoro?

Non penso sia un grosso problema nelle nostre zone ma sicuramente lo è in altre province. Se senza lavorare lei potesse percepire 800 euro, accetterebbe un lavoro dove le offrono 850 euro, in cui magari deve considerare anche le spese di trasporto? È chiaro che il reddito di cittadinanza ha generato nel mercato un aumento delle richieste salariali. Ma quando si parlava della sua introduzione gli economisti del lavoro avevano già evidenziato il rischio di questo meccanismo.

Del salario minimo invece cosa ne pensa? L’Italia dovrebbe adottarlo?

Da un punto di vista teorico è indispensabile. Specialmente in un Paese come il nostro dove i salari sono medio-bassi. Ma non è semplice definire un livello numerico preciso. Quello che è certo è che il salario minimo dovrebbe salvaguardare soprattutto i giovani e i giovani con lavori precari come quelli nei fast food. Pensare a un salario minimo è importante per dare dignità al lavoro.

Come possiamo uscire da questa condizione di stallo?

Da economista dico che questa è la prima generazione che entra nel mercato del lavoro con condizioni peggiori rispetto a quelle dei propri genitori. Questo ci deve preoccupare. Ma proprio perché ci preoccupa vorrei che si superasse questa sorta di conflitto generazionale, di opposizione tra adulti e giovani che è in atto per cui gli adulti dicono che i ragazzi non hanno voglia di lavorare e i giovani rispondono che non è così. E io sono convinta che non sia così, ma bisogna trovare un punto d’incontro, che significa rinunciare ognuno a una parte delle proprie convinzioni. I giovani devono ascoltare di più le esigenze delle aziende, e chi fa recruiting deve cercare di tenere in considerazione le richieste dei giovani di un lavoro di qualità, che valorizzi le loro competenze anche in termini retributivi.

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