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Giovani e lavoro

“Per i ragazzi conta di più realizzarsi nel lavoro, lo stipendio è la priorità degli adulti”

Partendo dal dibattito sulla mancanza di forza lavoro, di salari bassi, sulle scelte dei giovani interviene Vera Lomazzi, docente di Sociologia generale dell’Università degli Studi di Bergamo

Bergamo. Gli schemi nella ricerca del lavoro da parte dei giovani stanno cambiando. Non sono solo le aziende a rendersi conto delle diverse richieste di oggi dei ragazzi – a cominciare da una quantità maggiore di lavoro agile (e quindi di più tempo libero) a un salario più elevato -, ma a registrare le nuove aspettative dei giovani lavoratori sono anche i ricercatori. Come la professoressa Vera Lomazzi, docente di Sociologia generale dell’Università degli Studi di Bergamo, con cui abbiamo approfondito proprio questi aspetti.

Professoressa, negli ultimi tempi sembra emergere nei giovani una nuova concezione del lavoro: la ricerca della qualità dell’impiego aumenta, soprattutto in termini di salario e di tempo libero. È d’accordo? Da dove nasce questa trasformazione?

Credo che ricercare la qualità del contesto lavorativo sia un fatto positivo. Nel 2019 è uscita un’importante ricerca sui valori degli europei, dal titolo European Values Study, in cui uno degli aspetti trattati era proprio la dimensione del lavoro. I dati raccolti in Italia evidenziano che in effetti ci sono delle differenze generazionali su quello che si ritiene rilevante nel lavoro. La cosa forse più interessante riguarda il salario, che interessa molto, ma in realtà maggiormente alla fascia tra i 35 e i 55 anni. Tra i più giovani nella fascia 18-34 anni infatti “solo” il 68% dice che lo stipendio è per loro la priorità. Rispetto alle generazioni più adulte, dunque, il salario è meno importante di altri aspetti. È vero, i giovani cercano la qualità del lavoro e soprattutto del contratto, ma nei termini di un contratto dignitoso e non tanto di una stabilità del posto fisso.

La pandemia quanto ha influito su questo processo? Sono cambiati i rapporti umani, e di conseguenza quelli lavorativi?

Sono cambiati. Non possiamo fare finta che la crisi che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo non sia successa. Dal punto di vista sociologico la pandemia ha reso evidenti molti nervi scoperti e uno di questi è il lavoro giovanile. Se fino al 2019 un giovane poteva accettare un lavoretto poco pagato e poco tutelato, ad esempio nella ristorazione, con la pandemia i ragazzi sono stati molto più esposti al rischio e quindi oggi, quando arrivano proposte in un determinato ambito in cui si hanno meno tutele, ci pensano un attimo prima di accettare. Quello che vediamo non è un fenomeno nuovissimo, ma c’è anche un po’ una narrazione semplicistica fatta su un fenomeno più complesso. Credo che quest’anno si mettano insieme almeno due cose: la ricerca di un lavoro dignitoso e l’essersi resi conto che fino a ieri ci si esponeva più ingenuamente. C’è più attenzione alla tutela verso sé stessi.

Insomma che aspettative nutrono oggi i giovani nei confronti di un posto di lavoro?

C’è sempre di più una dimensione del senso di quello che si fa. Il Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo ci dice che oggi i giovani cercano la possibilità di lavorare in un’azienda che abbia dei valori in cui si riconoscono. Il 60% dei ragazzi dice di voler lavorare dove possano fare qualcosa che abbia ricadute positive nella società. Nella stessa direzione, i dati dell’European Values Study ci mostrano che si cerca di più anche una realizzazione personale attraverso il lavoro. Il 76% dei giovani crede che sia più importante realizzarsi rispetto al salario, che è messo invece come priorità dal 68% dei ragazzi. E questi dati diventano ancora più interessanti quando li confrontiamo con quelli degli adulti. Tra questi è l’80% a dire che la cosa più importante è il guadagno. Un altro aspetto interessante poi riguarda la ricerca di un buon orario di lavoro. Sempre nella fascia 35-55 questo aspetto è più importante rispetto ai giovani, ma qui interviene anche una dimensione familiare e di conciliazione dei tempi forse meno prioritaria per i più giovani.

Siamo un paese che crede e investe poco sui giovani. La politica ha delle colpe in questa trasformazione?

Ci sono senz’altro responsabilità politiche nel momento in cui si decide su cosa investire. La voce giovani, a mio avviso, per molto tempo è stata parlata ma poco agita dalla politica nazionale, magari meno da quella locale. Quello che manca è una visione. Ma c’è anche un altro fattore da tenere in considerazione, la trasformazione demografica. Siamo uno dei paesi più anziani d’Europa. La fascia over 65 continua a crescere e quella giovanile ad assottigliarsi. Questo porta a politiche mirate e a problemi come quello dell’aspetto pensionistico, ma anche di consenso politico. È chiaro che nel momento in cui si deve fare un investimento o prendere una scelta impopolare la politica cerca di non scontentare l’elettorato.

Le generazioni precedenti invece hanno responsabilità su questo nuovo assetto mentale dei ragazzi? Come dovrebbero rispondere secondo lei?

Assolutamente sì. Credo dovrebbero fare un passo di lato. Non dico necessariamente lasciare il posto, ma far crescere i ragazzi. Penso alle aziende, ma anche all’associazionismo e alla politica. Sono corpi in cui ci si lamenta che non ci sono i giovani, ma magari è solo questione di una mancanza di spazio dato ai giovani. Creare questo spazio può aiutare. C’è un dovere morale in questo senso. Parlando di responsabilità, penso anche alla crisi climatica e alla siccità di quest’anno: è chiaro che chi ci ha preceduti è stato poco attento nell’uso delle risorse ambientali.

I giovani come vivono la provocazione del mondo adulto per cui non hanno voglia di lavorare e di sacrificarsi?

Non penso la vivano bene. Se guardiamo alla situazione in termini storici, la generazione precedente a quella attuale è una generazione che per avere determinate tutele ha dovuto combattere ma che in generale ha beneficiato di un periodo storico più favorevole, in termini di stabilità, di opportunità, di tutele. I giovani oggi rispondono ’Gli adulti ci criticano ma hanno avuto più di noi’.

vera lomazzi

Parliamo sempre di presente e poco di futuro. Come immagina la società italiana del 2030 e del 2050?

È una domanda difficilissima. In questo momento siamo in una fase molto delicata, ci sono processi in corso che possono prendere direzioni diverse. Allargando lo sguardo basta pensare a quello che sta succedendo in Ucraina, a come sta cambiando l’Europa e il senso di appartenenza ad essa, così come alla crisi ambientale. C’è una situazione di profonda trasformazione. Con la pandemia, ad esempio, in Europa è successa questa cosa incredibile per cui si è deciso di aiutarsi. E lì le cose cambiano. Questo fa vedere come i momenti di crisi possono portare a un cambiamento, a uno slancio verso l’altro, verso la solidarietà. Non so se noi oggi lo stiamo vivendo nei confronti dei giovani. Il Pnrr e tutti i finanziamenti potrebbero essere un’iniezione di fiducia. Se andremo in una direzione di crescita potremo avere una società più equa, con territori più attrezzati per le sfide che ci attendono. Ma se non si riesce a credere in questo progetto calerà non solo la fiducia nelle istituzioni, ma anche nelle persone.

C’è qualcosa in questo processo di cambiamento che stiamo sottovalutando?

Quello che si sottovaluta a volte è la voce dei giovani. Si parla sempre di giovani e si sente parlare di giovani, ma non c’è mai un giovane che venga fatto parlare. Bisognerebbe trovare il modo di ascoltarli un po’ di più.

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