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Giosuè Carducci, poeta e cantore dell’Italia umbertina

Fu uno dei massimi letterati della sua epoca, a lungo considerato tra i più grandi della letteratura italiana, ma oggi, purtroppo, fortemente ridimensionato, trattato alla stregua di un poeta minore

Giosue Carducci (27 luglio 1835, Val di Castello – 16 febbraio 1907, Bologna) fu uno dei massimi letterati della sua epoca, esercitando una notevole influenza sulla cultura italiana a cavallo tra XIX e XX secolo. La sua produzione ottenne eco e fama mondiali, suscitando simpatie e antagonismi, guadagnandogli inoltre, nel 1906, il Premio Nobel per la poesia. Uno scrittore a lungo considerato tra i più grandi della letteratura italiana, ma oggi, purtroppo, fortemente ridimensionato, trattato alla stregua di un poeta minore. Sopravvive, peraltro, un deciso pregiudizio storiografico e storico nei confronti del Carducci, uno sguardo improntato a una certa sufficienza, riconducibile, almeno in parte, alla dirompente personalità dello stesso, alla sua evoluzione ideologica e letteraria, nonché a quel suo essere profondamente contraddittorio, coniugando romanticismo e classicismo, patriottismo democratico e simpatie monarchiche conservatrici, provocazione e conformismo borghese.

Divenne poeta e cantore dell’Italia umbertina, folgorato dalla grazia e dal fascino irresistibile della regina Margherita, alla quale dedicò persino un’ode. La sua fu una poetica spesso violenta e irriverente, si pensi al noto Inno a Satana, fortemente critica nei confronti della religione, del Romanticismo sentimentale e cristiano, non risparmiando nemmeno il Manzoni. Si autoproclamò “scudiero dei classici”, riproponendo la metrica antica, nelle sue famose Odi barbare, conquistando progressivamente il gusto del pubblico. Mirò alla realizzazione di una letteratura alta, soprattutto nella raccolta intitolata Rime nuove, avendo come riferimenti fondamentali Omero, Virgilio, Dante, Petrarca e Ariosto.

Alla passione per la poesia accompagnò un intenso lavoro di studioso e critico letterario, consegnando ai posteri una notevole, per quantità e pregio, produzione di saggi e volumi a tema, ispirandosi all’impostazione metodologica tipica del positivismo, cioè puntando “alla rigorosa ricostruzione dei fatti, le vicende biografiche, gli ambienti culturali, gli istituti letterari, le forme linguistiche e metriche, le fonti, la ricostituzione filologica del testo” (G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo. Dall’unificazione nazionale al Decadentismo, Vol.III, Paravia, Torino, 1995). Il nostro seppe distinguersi, inoltre, nell’ambito dell’oratoria, scritta e orale, “per l’impeto battagliero, l’argomentare incalzante, gli scatti umorali, il sarcasmo tagliente” (Op. cit.). Non si può omettere, infine, un riferimento all’importante epistolario, formato da ventidue volumi, oggetto di profondo interesse per studiosi e cultori della materia.

Un elemento particolarmente caratteristico del pensiero e dell’indole carducciana, a mio modo di vedere, emerge nella poesia Tedio invernale (Rime nuove, 29 marzo 1875), cioè quel suo tipico rifugiarsi nel passato, rievocando luoghi e tempi nobili, bagnati dai raggi solari, dalla luce, dal calore, dalla primavera dei valori, contrapponendoli al “tedio”, al “verno immondo”, alla cenere, al freddo e alla nebbia del presente. Il poeta tradisce una vaga nostalgia per il mito, per il fantastico, cullandosi nel sogno e nell’illusione, dipingendoci un’umanità caduta e decadente, privata per sempre della dolce giovinezza, della gloria e della bellezza, della fede, della virtù e dell’amore.

Un passato consegnato alla memoria e che mai più farà ritorno: “Ciò forse avvenne ai tempi d’Omero e di Valmichi, ma quei son tempi antichi, il sole or non è più”.

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