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A bordo campo

La Buona Pasqua di un parroco bergamasco di frontiera

Don Gianfranco Feliciani, nato a Malpaga di Cavernago in una famiglia che fece le valigie per la Svizzera, è da 21 anni arciprete di Chiasso. Una parola e un annuncio di fraternità, di amore, di speranza

Le buone notizie spuntano sempre anche nei terreni dei nostri giorni, ma bisogna coltivare la pazienza di cercarle perché sono sopraffatte dalla sterpaglia e dai rovi della negatività che fa la cronaca.

Il bene ha una vocina leggera, ma la generosità, l’altruismo, la solidarietà alimentano la speranza umanitaria.

Uno che lavora con fervore fra i solchi della fraternità è un prete bergamasco, don Gianfranco Feliciani, dal 2001 parroco di confine a Chiasso. Si muove su una frontiera dove spesso vanno a infrangersi sogni di un diverso futuro, incontrando muri di impedimenti e di incomprensioni.

Gianfranco Feliciani è nato a Malpaga di Cavernago il 25 gennaio del 1952. Quando aveva 5 anni, la sua famiglia decise di fare le valigie e si trasferì a Rancate, un paese a una manciata di km dal confine tra Italia e Svizzera.

Dopo le scuole dell’obbligo, si iscrisse all’Arti e Mestieri di Bellinzona, lavorando nel contempo in una tipografia. Forse gli si accese qui lo slancio della comunicazione, perché vi si stampava un settimanale. Fatto sta che una volta preso il diploma di tipografo compositore, il giovane Gianfranco decise una svolta di vita radicale: intraprese Teologia all’Università di Friborgo come studente del Seminario diocesano di Lugano e diventò prete nel 1981.

A qualificare la sua vocazione furono subito gli slanci di un ministero aperto, pronto a percepire le attese, le urgenze, i bisogni della prossimità, anche quelli che restano avvolti nel silenzio della compostezza, i dolori silenziosi, l’indifferenza che ferisce dentro. I campi dei suoi slanci samaritani sono stati nell’ordine a Minusio, poi a Tesserete e quindi in questi 21 anni a Chiasso, in una realtà composita, terra di passaggio di genti da ogni dove, di necessità inimmaginate, anche di impegno grande fino al dono della vita come accadde a don Renzo Beretta (1999) e a don Roberto Malgesini (2020).

Don Gianfranco unisce l’annuncio e l’azione, richiamando con coerenza mossa comunque da amore il monito di Gesù: “Il giudizio finale avverrà per ciascuno di noi sul rapporto che abbiamo avuto nella vita, qui e ora, con il fratello nel bisogno, affamato, assetato, straniero, nudo, malato e carcerato”.

Questa è la prova d’esame di cui conosciamo in anticipo il contenuto: è il test d’ingresso in Paradiso. Le frecce segnaletiche indicano tutte un’unica strada: “Affrettiamoci ad amare”, che è – guarda caso – il titolo del più recente libro di don Gianfranco Feliciani. Altri suoi titoli, indicativi di un percorso: “Parole rischiose”; “Frontiere aperte”, “È ora di voltare pagina”.

Con lui abbiamo parlato del messaggio-architrave del cristiano, la Pasqua, la risurrezione di Gesù e alcune questioni del credere nel nostro tempo.

“Facciamo della vita
il nostro dono d’amore”

Gianfranco Feliciani

 

Don Gianfranco, ci lasciamo alle spalle due anni molto pesanti. Il covid con i suoi confinamenti ha diradato ulteriormente la partecipazione ai riti religiosi nelle chiese. Come spiegheresti la Pasqua ai bambini di oggi, molti dei quali ne ignorano il significato?

Il covid ha costretto i fedeli a “digiunare” per parecchio tempo dai riti religiosi, ma trovo che questo digiuno non ci abbia fatto male. Ci ha fatto riflettere sul pericolo di un certo “consumismo religioso”, che porta sempre alla banalizzazione della fede, e ci ha fatto riscoprire la nostalgia della comunione con il Signore e con la comunità. La Pasqua è la storia di Gesù che ha fatto della sua vita un dono d’amore per i fratelli ed è finito su una croce, ucciso da coloro che non hanno creduto a quell’Amore. Ma Gesù è risorto perché l’Amore è più forte della morte. Un bambino può imparare a credere alla Pasqua solo vedendo attorno a sé persone che come Gesù hanno fatto della loro vita un dono d’amore per gli altri. Se non riesce a vedere ciò, penserà che si tratta solo di una favola per bambini.

Finito il covid, la guerra in Crimea con un genocidio di innocenti e città rase al suolo. Nella Messa professiamo di “credere in Dio Padre onnipotente”, poi vediamo morti e distruzione senza fine e molti si fanno una domanda angosciante: come può chiederci di essere amato se non sente la disperazione che sale dalla Terra?

Però è doveroso chiederci: ma di quale Dio parliamo? Il Dio che Gesù di Nazaret ci ha narrato non è assolutamente quello delle nostre proiezioni, ma è il Padre dei cieli capace solo di amare. È il Padre misericordioso che all’ingratitudine dei suoi figli risponde sempre con la debolezza e la potenza del suo perdono. In Gesù, Figlio di Dio, uomo come noi, morto in croce come un delinquente e risorto il terzo giorno, è pienamente svelato all’uomo il mistero dell’amore invincibile di Dio. Amore onnipotente e insieme… debole, sconfitto, crocifisso! Sta qui l’inaudita novità del cristianesimo. Dio non è l’impassibile regista che orchestra la creazione, ma il mendicante che ci supplica di cooperare con lui per il bene e la salvezza dei suoi figli nostri fratelli. Il suo dramma divino è ancora più intenso del nostro. Dio non può nulla senza di noi, mentre se noi ci apriamo al suo amore, come lui anche noi compiamo prodigi. Non sa di prodigioso la solidarietà del Ticino e dell’Europa nei confronti dei profughi ucraini? Poiché l’uomo non è lo schiavo di Dio, ma è il figlio e il partner di Dio, ognuno di noi diventa protagonista e responsabile della storia del mondo.

La solidarietà
aiuta anche noi

Tu ti sei molto esposto nel sensibilizzare e richiamare all’accoglienza. Il messaggio fatica però a essere assunto con coerenza pratica e concreta. Hai l’impressione che la pandemia e la crisi stiano facendo crescere l’indifferenza e il ripiegamento in sé stessi?

Con i profughi dell’Africa e del Medio Oriente non abbiamo certo brillato per solidarietà e accoglienza. Ma con i profughi ucraini c’è stata una mobilitazione dei cuori davvero straordinaria! Il ripiegamento su di sé è sempre una tentazione, ma oggi più che mai ci accorgiamo che l’aiuto offerto a questa gente che fugge dalla guerra, alla fine aiuta anche noi. Ci aiuta a comprendere che siamo tutti sulla stessa barca e che aiutare chi è in difficoltà è un dovere. E se domani fossimo noi ad aver bisogno? Dice Papa Francesco: “Questo non è tempo di indifferenza: o siamo fratelli, o crolla tutto!”. E poi ci aiuta a riscoprire quella tradizione umanitaria che nei secoli ha reso grande la Svizzera agli occhi del mondo.

Qual è l’infelicità più grande che rilevi?

È l’infelicità di chi si sente solo! Madre Teresa di Calcutta ha ragione: “La peggiore malattia e infelicità è il sentirsi non desiderati né amati, il sentirsi abbandonati. La medicina può far guarire le malattie del corpo, ma l’unica cura per la solitudine e la disperazione è l’amore. Si muore di fame, ma si muore ancor più per mancanza d’amore”. Madre Teresa non era un’intellettuale, anche se ha scritto molto, ma con la sua fede incrollabile e la sua carità coraggiosa ha mostrato a tutti, anche agli specialisti della cultura e della politica, la via giusta per la realizzazione di una civiltà veramente degna dell’uomo, dove possa fiorire la gioia di vivere.

La sfida di star bene
con la propria coscienza

Alla felicità cosa servirebbe soprattutto? E tu ci credi?

Come no! Gesù è disceso dal cielo per dire a tutti noi: c’è una bella notizia per te, non sei più solo, il Padre ti ama! Lo stesso deve dire e fare la Chiesa. Il suo compito è quello di diffondere la gioia. Chiediamoci: il nostro incontrarci alla Messa (e sono ancora tanti quelli che ci vanno) genera tutto questo? Nella sua ultima intervista il cardinale Martini disse: “Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza… La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore!”. Insomma, una certa morale soffoca la fede e una certa precettistica soffoca il Vangelo. Solo un esempio: se più della metà del popolo di Dio non ha il coraggio di accostarsi alla comunione perché non è in regola con i comandamenti, c’è poco da stare allegri…

Ma Papa Francesco non ha spalancato le porte a tutti, ricordando il primato della misericordia?

Certo, ma se nessuno lo spiega ai fedeli e se nessuno li invita ad accostarsi senza timore, ma con gioia all’Eucaristia, le cose rimangono come prima. “Se la gente sapesse quanto è bello vivere con il Signore – diceva santa Teresa di Lisieux – si dovrebbero mettere le guardie alle entrate delle chiese per regolare il flusso della gente”. La Chiesa è in crisi! Ma il tempo delle grandi crisi è anche il tempo delle grandi opportunità: mai come adesso infatti, smarriti come siamo, ci è data la possibilità di riscoprire il Vangelo in tutta la sua novità e la sua bellezza!

Qual è il coraggio più necessario nel tempo presente? E quanto costa a te personalmente cercare di praticarlo?

È il coraggio di saper cogliere senza paura le sfide del nostro tempo. Il coraggio di smascherare le menzogne e le strumentalizzazioni che avvelenano la società, l’idolatria del denaro soprattutto, superando non solo la tentazione dell’arroganza, che alla fine è sempre una ricerca di potere, ma anche quella del “politicamente corretto”, che è sempre una menzogna. Il coraggio, per chi si professa cristiano, di gridare al mondo la “bella notizia” di Gesù, che è quella dell’amore infinito del Padre per ognuno di noi, con tutte le conseguenze concrete, politiche, culturali e sociali, che questo annuncio comporta. Evidentemente questo coraggio ha il suo prezzo, a volte anche molto caro, ma è meglio essere criticati dal mondo che trovarsi male con la propria coscienza.

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