di Marco Cimmino
Un altro elemento di cui si deve tener conto, per comprendere gli stati d’animo e lo spirito della “crisi di luglio”, è legato ad una sorta di routine cui gli Europei si erano abituati, in materia di omicidi illustri.
Non vorrei essere frainteso: non si dice che un delitto come quello di Sarajevo non avesse colpito l’opinione pubblica, riempiendola di raccapriccio. Tuttavia, vi erano stati talmente tanti episodi analoghi, nei decenni immediatamente precedenti il 1914, da porre l’episodio bosniaco in una luce meno folgorante.
Insomma, la reazione, tutto sommato abbastanza fatalista, dell’imperatore Franz Josef di fronte all’uccisione del nipote e di sua moglie rifletteva un atteggiamento abbastanza comune, di fronte ad avvenimenti che, in un certo senso, venivano messi in conto dai capi di stato e di governo. Certamente, questo non è sufficiente a giustificare il mese di stallo, di una sorta di drôle de guerre neppure dichiarata, che caratterizzò le diplomazie europee in quel fatale luglio del 1914, però è un dato di cui, fino ad oggi, non si è tenuto il debito conto.
D’altra parte, ancora ai nostri giorni, la ricostruzione dell’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 dà adito a diverse interpretazioni e, soprattutto, fa oscillare da una parte all’altra il pendolo della storia. Per questo, per comprendere meglio le reazioni internazionali alla notizia dell’eccidio, bisogna accettare il fatto che l’uccisione violenta di un monarca, di un ministro o di un personaggio pubblico fosse, tutto sommato, abbastanza comune: uomini di stato, sovrani e dinasti, caddero a decine, per mano di attentatori politici, spesso, ma non sempre, anarchici.
Solo per fare qualche esempio, lo zar Alessandro II (1881), il presidente francese Carnot (1894), il primo ministro spagnolo Cánovas del Castillo (1897), l’imperatrice Elisabetta d’Austria (1898), re Umberto I (1900), il presidente Usa Mc Kinley (1901), Carlo I di Portogallo (1908), Giorgio I di Grecia (1913) furono alcune tra le vittime illustri di questa autentica ecatombe.
La realtà è questa: che l’attentato di Sarajevo agli occhi dell’opinione pubblica di allora non rappresentò qualcosa di particolarmente efferato o di estraneo alla logica del terrorismo tardo ottocentesco e dei primi del Novecento. Per questa ragione, probabilmente, tutto sommato, nessuno si aspettava una reazione esagerata da parte dell’Austria-Ungheria.
Anche la reale identità degli attentatori del 28 giugno desta ancora discussioni e dibattiti: lo storico serbo Mile Bjelajac, ad esempio, sostiene la matrice improvvisata dell’eccidio, eseguito da un gruppo di studenti sprovveduti e portato a termine del tutto casualmente da Gavrilo Princip. Di altro avviso sono, viceversa, altri storici, tra cui chi scrive, che vedono la mano dei servizi serbi dietro l’attentato: certamente, d’altronde, fu il colonnello “Apis” a fornire ai congiurati le pistole browning che furono utilizzate a Sarajevo.
Tuttavia, ancora mancano prove definitive, in un senso come nell’altro. Come si vede, all’Austria mancava una reale pulsione vendicativa e nemmeno esistevano le prove certe di un coinvolgimento diretto della Serbia nell’eccidio. Qualcosa, però, inceppò i meccanismi diplomatici, precipitando il mondo verso la catastrofe.
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