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Giornata della memoria

La storia di Alice e Riccardo Schwamenthal: una testimonianza di resistenza in terra bergamasca

Abbiamo incontrato Maria Teresa Montanari il cui marito, con la sua famiglia, sopravvisse agli orrori della deportazione e della guerra trovando poi una nuova vita nella bergamasca

Ricordare. È questa l’azione che siamo chiamati a compiere ogni 27 gennaio. Ricordare le vittime dell’Olocausto. O meglio, ricorrendo all’etimologia della parola stessa, “tornare al cuore” della storia per sentire il dolore di milioni di vittime e deportati. E lasciare che tracci un segno nel proprio cuore.

Bergamo e provincia non sono affatto corpi estranei a questa pagina drammatica dell’umanità, che però nasconde semi di speranza, come la storia di Alice Redlich e della sua famiglia, composta dal marito Leiser Schwamenthal e dai figli Riccardo e Liliana. Maria Teresa Montanari è la moglie di Riccardo Schwamenthal e, in seguito alla scomparsa del marito, è divenuta la custode di questa vicenda. L’abbiamo incontrata nella sua casa a Bergamo per fare memoria e condividere al pubblico più vasto possibile questa storia che inizia il 13 marzo 1938, data dell’Anschluss, ovvero l’annessione dell’Austria da parte della Germania Nazista.

 

Generico gennaio 2023

 

Generico gennaio 2023

 

Alice Redlich nasce infatti a Vienna nel 1909, è figlia di un padre austriaco (ingegnere e direttore della navigazione sul Danubio) e madre ungherese (ricamatrice). Sposa Leiser Schwamenthal (originario della Bucovina, regione al confine tra Romania ed Ucraina) nel 1932 e dà alla luce il primo figlio, Riccardo, nel 1937: “Alice studiò fino alla morte del padre. Aiutò quindi sua madre per tirare avanti e fece la ricamatrice per l’alta società di Vienna. Dopo aver sposato Leiser avviarono una pasticceria a Vienna.

Con l’Anschluss cominciarono le prime violenze nella città quali requisizioni, deportazioni e agli ebrei vennero confiscati negozi e beni. Chi non aveva l’aspetto ariano veniva preso e obbligato a pulire le strade con la soda caustica. Obbligate ad inginocchiarsi per terra con i secchi di soda caustica queste persone finirono presto in ospedale, a molti
furono amputate le gambe.

La situazione diviene così insostenibile per Alice, il marito Leiser e il piccolo Riccardo. Verso la fine del 1938 la fuga è inevitabile: “Alice e Leiser subirono soprusi e persero il negozio. Chi tolse loro il negozio furono nazisti austriaci, ex-clandestini, con i quali si conoscevano e vivevano porta a porta nel quartiere. Cominciavano a temere per la loro vita e lasciarono così l’Austria. Per chi aveva il passaporto austriaco valido e il visto si poteva uscire solo per Italia e Shanghai. Scesero così a Milano, da un loro parente. Ma il 7 settembre 1938 furono colti dal Regio Decreto per l’espulsione di tutti gli ebrei stranieri, che sarebbe dovuta avvenire entro il 12 marzo 1939.

 

Generico gennaio 2023

 

Gli Schwamenthal – schedati come la maggioranza degli ebrei – rimangono a Milano fino a tale data. Leiser viene quindi confinato ad Eboli e nel mentre la madre di Alice, Elona Hunger, viene arrestata a Vienna. Alice con grande coraggio e caparbietà viaggia a Roma per far sì che la madre venga rilasciata. Riesce nell’intento ma l’arrivo in Italia della madre precede di poco la deportazione dell’intera famiglia nel 1940 al campo di internamento di Ferramonti di Tarsia (provincia di Cosenza): “L’intervento di un emissario del Papa Pio XII ottenne che le famiglie, se riunite, potessero andare in campi di internamento italiani. Così Elona, Alice, il marito Leiser e Riccardo, che aveva 3 anni, si trovarono lì insieme. Quando negli anni ‘90 su Ferramonti si concentrò l’interesse degli storici e si tennero numerosi convegni, Riccardo diventò noto come ‘il bambino di Ferramonti’ perché lì visse dai 3 ai 4 anni”.

La prigionia della famiglia durò infatti circa un anno e la sig.ra Montanari racconta delle condizioni di vita della famiglia nel campo: “Ferramonti era un luogo paludoso ed isolato. Il fascismo creava questi campi in luoghi lontani dagli occhi dei cittadini. Era luogo di malaria, infatti i 3 morti che ci furono nei 3 anni dell’esistenza del campo furono causati da questa malattia, non dall’azione dei fascisti che gestivano il campo. Violenze sui detenuti non furono mai perpetrate, come tanti testimoniarono. Il campo era organizzato in baracche con un piccolo pezzo di terra coltivabile, assegnate per ogni famiglia. Gli ebrei detenuti in Italia ricevevano un piccolo emolumento in denaro, dato che erano stati confiscati loro tutti i beni, che non bastava però per sostenersi.”

Già in questo momento emergono relazioni di solidarietà con la popolazione locale, per la quale la presenza degli ebrei diviene una risorsa: “I prigionieri erano abili in tanti lavori: c’erano dai medici agli psichiatri, ingegneri oltre a praticanti di mestieri manuali. Qualche medico fu chiamato perché la popolazione locale viveva in condizioni pessime. Gli ebrei così potevano ottenere ortaggi e farina.”

La reclusione a Ferramonti cessa dopo un anno di prigionia grazie all’intervento del nunzio apostolico papale. Gli Schwamenthal vengono trasferiti nella bergamasca, in Val Seriana, a Clusone. Lì, in una condizione di libertà coatta, la famiglia inizia ad intessere minime – e opposte – relazioni con la popolazione locale: “A Clusone c’erano anche altri ebrei, tra i quali dei pellicciai una volta ricchissimi. Per ripararsi dal freddo invernale andavano nel bar locale, che ospitava i maggiori enti del paese come il notaio e il sindaco. Questi vedevano di malocchio gli ebrei, che invece venivano aiutati da molti popolani, ad esempio il panettiere di Clusone consentiva loro di portare da lui della farina e di fare il pane con il suo forno. Intanto Leiser riusciva a vendere nelle frazioni dei tagli di stoffa che gli forniva un negoziante di Ardesio”.

Tutto precipita però dopo l’armistizio italiano, proclamato l’8 settembre 1943. Gli Schwamenthal devono nascondersi con i partigiani e si spostano tra i comuni di Gromo e Ardesio, in alta Val Seriana: “Erano ad Ardesio, ma erano sorvegliati in domicilio coatto. Alice così, impaurita, decise di scappare con la famiglia. Il pomeriggio del 1 dicembre 1943 scapparono peraltro davanti agli occhi di un appuntato e di un maresciallo che erano andati a prenderli: con un pretesto Alice preparò una borsa e poterono fuggire dalla porta di casa che dava sul fiume Serio. Era dicembre ma il fiume in quel punto era guadabile, trovarono un ragazzo di 13 anni che li aiutò a passare. La famiglia entrò nel bosco oltre il fiume. Quando il maresciallo e l’appuntato si accorsero della fuga li inseguirono ma che non fossero davvero riusciti a trovarli o che non abbiano voluto trovarli per aiutarli, fatto sta che non li presero”.

Questo episodio è reso ancor più eclatante dalla gravidanza che Alice stava portando avanti. Il 2 gennaio 1944 infatti nasce la secondogenita Liliana. Gli Schwamenthal si nascondono nella frazione di Botto Alto (ad Ardesio) e a Valzurio, in una cascina chiamata “La Masu”. Due sono gli episodi, in questo periodo, che mostrano la grande solidarietà della popolazione bergamasca verso questa famiglia di esuli. Il primo è la malattia della figlia Liliana: “Tutti cercavano di aiutare Alice. Una ragazzina di 12 anni veniva mandata dalla mamma a portare una lattina di latte per Liliana perché tutti sapevano di questa bambina, riuscirono anche a farle arrivare la levatrice della valle per il parto. Liliana si ammalò però di difterite. Il dottor Moioli di Ardesio andò a visitarla e disse apertamente che l’unica possibilità di salvezza per la bambina era il ricovero in ospedale a Bergamo. Alice, disperata, affrontò il rischio e prese il treno per Bergamo con la bambina, accompagnata da una contadina. In via Torquato Tasso visitò il dottor Panseri, preoccupato perché aveva sempre i nazisti in ospedale. Alice la prima sera dormì fuori dall’ospedale, ospitata da signori contattati dal Panseri. La mattina seguente tornò in ospedale e vide il lettino di Liliana vuoto: pensò che la bambina fosse morta ma invece arrivò una suora che le fece vedere che Liliana era stata messa in una stanza da sola con un lettino a fianco, in maniera tale che Alice potesse fermarsi la notte a dormire con la bambina. Alice continuerà regolarmente a visitare questa suora, suor Lucia, anche dopo la guerra.”

Secondo, non meno importante, la protezione fornita dai contadini durante le perquisizioni dei fascisti: “Ci fu un’incursione dei nazisti e loro non fecero in tempo a spostarsi. Allora i contadini misero alla mamma di Alice un foulard in testa come se fosse una contadina e la misero a sedere sull’aia. Alice e Leiser vennero nascosti in un pozzo asciutto e chiusi dentro. Riccardo era vestito come tutti gli altri contadinelli e montanari locali e giocava con gli altri ragazzini nel cortile. Arrivarono i tedeschi, fecero una loro ispezione pesante ma non trovarono nulla e se ne andarono. Quelli sono i momenti che mia suocera raccontava ancora facendo trasparire l’ansia e la sospensione passata in quei momenti”. O anche quella fornita dalla popolazione locale: “A Botto Basso arrivò un venditore di sapone di contrabbando, chiamato Trifola. Leiser gli affidò le sue stoffe affinché le vendesse, ma il Trifola venne fermato dai carabinieri e spifferò la verità sulle stoffe. Il mattino dopo il Trifola condusse il maresciallo all’abitazione degli Schwamenthal. La sera però riuscì a dire al calzolaio Giudici della famiglia di ebrei nascosta a Botto Basso, e che la mattina i carabinieri sarebbero andati a prenderli. Il calzolaio quindi mandò un nipotino ad avvertire la famiglia di Alice in modo che potessero fuggire”.

Quando chiedo alla sig.ra Montanari se e come hanno rintracciato queste persone che, con gesti semplici ma coraggiosi, salvarono la vita ad Alice ed alla sua famiglia, l’emozione è tangibile: “Riccardo è andato ancora in loro ricerca. Il ragazzo che li aveva aiutati ad attraversare il fiume l’abbiamo trovato casualmente, tale Bati. Avevamo un amico sopra Gromo che abitava vicino alla cascina del Bati e combinazione quando una volta siamo andati in questa cascina a comprare i taleggi è saltato fuori che quello era il Bati che li aveva aiutati a scappare quando Riccardo era bambino, e che aveva questa sorella, suor Lucia, a cui mia suocera era affezionata”.

Nel 1945, il 25 aprile, arriva finalmente la pace. La famiglia Schwamenthal si stabilisce a Bergamo, dove Riccardo diventerà noto per il suo lavoro di recupero e conservazione della cultura popolare assieme a Mimmo Boninelli e Marino Anesa. Quel passato turbolento, di cui custodiva pochi frammenti, inizialmente non era stato raccontato da Riccardo a sua moglie: “Riccardo non aveva neanche coscienza di essere ebreo. Anche perché loro non erano osservanti. Della sua infanzia non ha mai raccontato salvo allusioni ai momenti del gioco nei cortili dei contadini, anche perché in famiglia era l’unico che parlava e capiva il bergamasco. La storia per filo e per segno io non la conoscevo, fino a quando lui ha registrato su magnetofono sua mamma. Se ne parlava poco”.

La sig.ra Montanari è attesa il 28 gennaio al Liceo Paolo Sarpi per raccontare agli studenti le vicissitudini del marito e della sua famiglia: “Veniva chiamato spesso mio marito. Quest’anno mi hanno invitato per la prima volta. Sono venute fuori queste iniziative anche perché gli anni scorsi eravamo fermi per il Covid”.

Non solo, la storia di Alice Redlich in Schwamenthal è stata trascritta da Riccardo Schwamenthal e Maria Teresa Montanari e pubblicata nel dicembre 1987 su “Studi e ricerche di storia contemporanea 28” della Rassegna dell’Istituto Bergamasco per la Storia del Movimento di Liberazione (ISREC BG).

Il testo, che raccoglie la storia raccontata dalla viva voce di Alice Redlich intervallata da appunti della sig.ra Montanari, si conclude con questa sua considerazione: “A salvare lei ed i suoi […] non furono solo la comprensione e l’aiuto ricevuti, ma anche una disposizione a contrastare il proprio annientamento, un comportamento attivo e intraprendente, che, per quanto attiene al significato primo della parola, può a buon diritto essere definito resistenza”.

La Giornata della Memoria serve proprio a questo: tornare, ogni anno, al cuore della storia è allo stesso tempo tornare al cuore di noi stessi. Lì dove possiamo trovare l’intraprendenza e il coraggio che servono per incidere attivamente e positivamente nella società.

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