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Damon Albarn senza Blur: minimalista e sincero per anime malinconiche

"Everybody Robots" ha conquistato il nostro Brother Giober nonostante non sia mai stato un amante del pop inglese anni '90: ma Damon Albarn, che sarà in Italia a luglio, ha realizzato un disco, dice "per molti aspetti stupefacente, fatto di canzoni scritte benissimo, spesso presentate con un arrangiamento scarno, perfetto però ad evidenziarne la bellezza".

Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema

** se non ho proprio altro da ascoltare…

*** in fin dei conti, poteva essere peggio

**** da tempo non sentivo niente del genere

***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

 

 

ARTISTA: Damon Albarn

TITOLO: Everybody Robots

GIUDIZIO: ***1/2

Non sono un grande conoscitore del pop inglese degli anni ’90 e non l’ho mai amato in particolare.

Le piccole storie di Oasis et similia non mi hanno mai affascinato, ho trovato gradevoli alcune melodie ma, spesso, troppo insopportabili gli interpreti. I Gallagher non hanno mai sollecitato la mia curiosità.

Diverso il discorso per i Blur che, in qualche modo, rappresentano nel contesto, per me, un’eccezione. Ho ascoltato alcuni dischi della loro produzione, Parklife in particolare e l’epitaffio dal vivo Parklive, e distrattamente anche alcune cose dei Gorillaz, la creatura sintetica del leader Damon Albarn, un progetto accostabile a quello, negli anni ’80, dei Tom Tom Club. I Blur hanno, a mio parere, un loro perché. Alcune loro canzoni (Coffee and TV, Boys and Girls) hanno le stigmate della genialità, e soprattutto quando, come in Tender, è evidente lo sforzo di sintesi tra generi tra loro agli antipodi come il gospel e il pop più commerciale, il risultato sfiora la perfezione.

Per cui, benché non sia tra i miei preferiti, reputo Damon Albarn un ottimo artista, potenzialmente un fuoriclasse, spesso tuttavia perso nell’inquietudine di apparire a tutti i costi genio.

Nel 2012 ha prodotto uno dei più bei lavori dell’anno, quel The Bravest man in the Universe di Bobby Womack che ancor oggi non riesco a togliere dalla playlist dei miei preferiti: un disco minimalista dove i suoni elettronici si sposano perfettamente con la voce carica di soul del cantante.

Everybody Robots ha molte cose in comune con quest’ultimo lavoro. Senza aver ascoltato nulla, non appena arrivato su ITunes l’ho scaricato, certo che mi sarebbe piaciuto anche se non so dirvi il perché di questa certezza.

Poi l’ho ascoltato, distrattamente, una sera a casa mia: come sempre più raramente mi capita, le note di un brano attirano immediatamente la mia attenzione e così mi viene nuovamente voglia di sentirlo. Mi accorgo che, al contrario di quelle che erano le mie aspettative, le canzoni hanno un arrangiamento semplice, mai banale, gli strumenti sono pochi e l’elettronica mai invadente è utilizzata per unire l’acustico con l’elettrico e ci sta che è una meraviglia.

Nelle intenzioni siamo di fronte ad un album soul, ma i suoni vanno in direzione diversa. Non c’è più la maschera dei Gorillaz o l’atteggiamento spocchioso e artificiale dei Blur a far da schermo alla personalità di Damon Albarn. In questo disco vi è, forse per la prima volta in una carriera di 25 anni la voglia di raccontarsi e questa volta in prima persona, nudo.

Le canzoni, dicevo, hanno un arrangiamento minimalista, basato sull’unire di pochi strumenti, legati tra loro da effetti elettronici che a volte paiono casuali, altre del tutto voluti e in simbiosi con il brano.

L’inizio è affidato alla title track, una sorta di nenia tra le cose meno riuscite dell’album, molto sintetica, robotica appunto; già il brano successivo, Hostiles, alza il livello del lavoro: introdotto da un arpeggio di chitarra e da un sottofondo che ricorda lo sfregare di una paletta contro la roccia (sarò stato capace di descrivere il suono/rumore? Bah!), parte una melodia bellissima, con coro in sottofondo. Un brano che colpisce, capace di cullarti, dolcissimo. Un colpo al cuore.

Lonely Press Play è annunciata dall’incedere di basso e percussioni elettroniche cui si contrappongono le note, dolenti, del piano. Una sintesi perfetta. La melodia e lo svilupparsi del brano ricordano alcune cose dei Blur. Il brano è ancora lento e ancora la melodia è perfetta. Forse qualche strumento a fiato che impercettibilmente dà il colore in sottofondo. Non è un brano facile a volte mi pare di ascoltare gli amati Blue Nile e anche in alcuni passaggi gli Everything By the Girl. Bello, affascinante.

Mr Tembo segna una virata decisa, il brano è semplice, orecchiabile, ritmato, l’atmosfera è ben diversa da quella che si respira nel resto del lavoro. Un brano tipicamente estivo, caraibico, con un coro a metà che testimonia, ce ne fosse ancora una volta bisogno, l’amore dell’artista per le sonorità afroamericane. Di nuovo atmosfere elettroniche sono quelle di Parakeet, un intermezzo elettronico, messo lì forse quale punto di svolta ad introdurre The Selfish Giant: poche note di piano, un pizzico di elettronica in sottofondo fino a quando tutti gli strumenti entrano all’unisono a cornice di un refrain riuscito ed accattivante. L’atmosfera, in genere, è sognante, romantica ma è assente qualsiasi tono dolciastro che certamente l’avrebbe rovinata. Il solo di piano verso la fine è classicheggiante ma perfetto. Il brano è complesso, stratificato ma pienamente riuscito.

Non altrettanto può dirsi di You and Me che ripropone alcuni limiti della canzone pop inglese ovvero una certa verbosità e pesantezza che toglie immediatezza al tutto. Qui i colori pastello sono quelli autunnali, di quell’autunno che piuttosto che immalinconire, deprime.

È un misto di pulsioni elettroniche e squarci di lirismo Hollow Ponds, un brano lento, scandito che potrebbe essere parte di una colonna sonora di un film tipo Incompreso o giù di lì, mentre Seven High è ancora solo un bozzetto sonoro della durata di circa un minuto, certamente di atmosfera ma nulla più.

Photogtraphs (You are Taking Now) è dolce e melodica, la lezione dei grandi del passato (Elton John, Cat Stevens) è presente più che altrove, vi è una minore elaborazione personale, ma il brano è riuscito ed alla fine piace.

The Histroy of Cheating heat, ha al suo inizio alcune note rassicuranti di chitarra acustica, la voce è più dolce e meno distante che nelle altre parti del disco. La melodia è sognante quando il brano verso il mezzo si apre e acquista respiro. Una canzone da ascoltare con calma, senza ansie, rilassati in poltrona.

Chiude il disco Heavy Seas of Love forse il brano più arrangiato dell’intero disco, quello strutturato nel modo più tradizionale. Bella la melodia e il anche il ritmo, così come perfetto il ritornello che potrebbe essere quello di un traditional di due secoli fa.

La copia a mia disposizione presenta due bonus tracks: Father’s Daughter’s Son, decisamente riuscita e Empty Club che, pervasa come è, da sussulti elettronici mi ha riportato dritto ad alcune atmosfere tipiche degli anni ’80.

Un disco per molti aspetti stupefacente, fatto di canzoni scritte benissimo, spesso presentate con un arrangiamento scarno, minimalista, perfetto però ad evidenziarne la bellezza. Se siete anime gentili, malinconiche, o se vivete nell’attesa di qualcuno che non arriva questo è il disco perfetto per voi; se invece siete impenitenti rockettari meglio girare oltre.

Dimenticavo… nel disco, in due brani partecipa Brian Eno. Originale la storiella, pare si siano incontrati in palestra a Londra. Certo che vedere Brian Eno fare acquagym non deve essere un grande spettacolo.

Infine, Damon Albarn sarà in Italia per due date a Luglio, a Gardone Riviera (14 luglio) e a Roma (15 luglio).

Questa volta è veramente tutto. Alla prossima.

Se non si vuole ascoltare tutto il disco: Hostiles

Se non ti basta ascolta anche:

Bobby Womack – The Bravest Man in the Universe

Antony and the Johnsons – The Crying Light The Blue Nile – Hats

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