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Opera

“Maria de Rudenz” Applausi al Donizetti nonostante alcune pecche

La Maria de Rudenz, misconosciuto lavoro della maturità donizettiana, in scena al Donizetti di Bergamo: splendida la prova della protagonista Maria Billeri ma il resto della compagnia non ha offerto prove impeccabili.

La locandina

Data dello spettacolo: 22 settembre 2013

Maria di Rudenz: Maria Billeri

Corrado Wadorf: Dario Solari

Enrico: Ivan Magrì

Matilde di Wolf: Gilda Fiume

Rambaldo: Gabriele Sagona

Il cancelliere di Rudenz: Francesco Cortinovis

Maestro concertatore e Direttore d’orchestra: Sebastiano Rolli

Regia: Francesco Bellotto

Regista assistente: Luigi Barilone

Aiuto regia: Piera Ravasio

Scene e costumi: Angelo Sala

Luci: Claudio Schmid

Maestro del coro: Fabio Tartari

Orchestra e Coro del Bergamo Musica Festival

Nuova produzione Bergamo Musica Festival

Prima esecuzione della nuova edizione della Fondazione Donizetti

“Voglio amore e amor violento” scriveva Gaetano Donizetti in una lettera divenuta celeberrima, e di amor violento è grondante Maria de Rudenz, misconosciuto lavoro della maturità donizettiana che, dopo un debutto deludente (di fatto fu un vero fiasco) conobbe una discreta serie di riprese nel XIX secolo, prima di scomparire dal repertorio e riemergere in alcuni sparuti allestimenti nel corso del ‘900, tra cui quello, celeberrimo, allestito alla Fenice con Katia Ricciarelli. Amor violento, dicevo, e ossessivamente folle: è singolare, in quest’opera, notare come i protagonisti, di fatto, non riescano a dialogare e a comunicare tra loro, essendo ognuno chiuso ermeticamente nella percezione del proprio disagio e della propria sofferenza. Dallo scontro violento di queste passioni totalizzanti emerge una catastrofe tra le più sanguinarie nel repertorio del compositore bergamasco, considerata eccessiva anche all’epoca, tanto che la penna del librettista Salvadore Cammarano, rispetto al dramma La monaca insanguinata di Anicet Bourgeois e Julien De Mallian alla base del soggetto, fu costretta a eliminare una delle quattro morti previste nel dramma originale, lasciando in vita il protagonista Corrado.

Opera strana e gotica, quindi, ma opera tutt’altro che brutta: buona parte della musica venne utilizzata nella contemporanea seconda stesura (mai rappresentata nell’800) di Gabriella di Vergy, mentre il concertato del I Atto passò nel Poliuto e il coro di laude iniziale trovò spazio ne La fille du Régiment ma, anche a non considerare gli autoimprestiti, troviamo nella partitura alcune tra le più suggestive creazioni donizettiane, tra le quali spicca lo splendido e drammaticissimo duetto tra Maria e Corrado del II Atto. Opera interessante, dunque, ma in ogni caso non così interessante da poter camminare da sola, necessitando di un vigoroso aiuto da parte degli interpreti chiamati a difenderne la causa.

A Bergamo, per il nuovo allestimento che per la prima volta presentava al pubblico la nuova edizione della Fondazione Donizetti (basata sul recente ritrovamento dell’autografo che si credeva perduto) questi interpreti c’erano in parte.

È mancato, soprattutto, il baritono, sfortunatamente titolare di una delle più parti più complete e interessanti di tutto Donizetti: Corrado, l’amante di Maria, chiamato a pagine di estasi sognante alternate ad altre di rovente drammaticità. Dario Solari ha infatti una voce dal timbro suggestivo, ma dall’emissione tendenzialmente ingolata, con acuti poco limpidi e un fraseggio spento e smorto, cui deve aggiungersi una musicalità non sempre irreprensibile. Anche prescindendo da un impossibile confronto con il mitico Mattia Battistini (che incise “Ah non avea più lagrime”, aria che amava inserire nella Maria di Rohan) la sua esecuzione è stata l’anello debole dell’esecuzione.

Meglio Ivan Magrì (Enrico), soprattutto per l’impegno dimostrato nel fraseggio: la parte sembra al momento decisamente al di sopra delle attuali possibilità del tenore, ma la proiezione è buona, l’emissione non sempre limpida ma molto migliorata rispetto ad altre prove del tenore che avevo trovato più interlocutorie senza contare che un incidente, avvenuto in generale, ha costretto l’artista su di una sedia a rotelle per l’intera opera (con ovvi stravolgimenti della regia) suggerendo di sospendere il giudizio su una prova inficiata da precarie condizioni di salute in cui si sono apprezzati il professionismo e la generosità di Magrì, che ha eseguito la parte senza tagli.

Protagonista era Maria Billeri che, alle prese con uno dei più convulsi personaggi usciti dalla penna di Donizetti, ha offerto una prova maiuscola. L’aria d’entrata, a onor del vero, ha evidenziato un vibrato decisamente poco gradevole, ma già dal secondo atto la robustezza della voce, l’intensità dell’accento, la capacità di gettarsi con il giusto mix di follia e spregiudicatezza nella creazione di una donna chiusa nell’ossessione del proprio sentimento hanno convinto il pubblico, che le ha tributato un’intensa e meritata ovazione dopo l’intensa esecuzione della lunga scena finale. Non dirò che Maria Billeri sia un’artista perfetta, ma è comunque una cantante solida e interessante (senza tener conto del notevole volume di voce), che meriterebbe una carriera decisamente più importante e di primo piano rispetto a quanto sta avvenendo, oltretutto considerando quanto scarse siano le rivali in un repertorio come quello del “soprano drammatico di agilità” cui può essere accostata la scrittura di Maria.

Completavano il cast la Matilde di Gilda Fiume, assai corretta soprattutto nel breve assolo iniziale, il Rambaldo autorevole di Gabriele Sagona e il cancelliere di Francesco Cortinovis.

A capo dei complessi del Bergamo Musica Festival il giovane Sebastiano Rolli ha confermato di essere una delle bacchette più interessanti e persuasive che questo repertorio possa sperare: oltre a dirigere interamente a memoria, Rolli ha saputo organizzare il suono dell’orchestra in maniera pulita e precisa, con una narrazione drammatica ma sempre attenta alle esigenze di canto e palcoscenico. Rispetto alla bella Maria Stuarda dell’anno scorso, però, è mancato in parte quel senso di abbandono malinconico che, in fondo, costituisce il lievito segreto della musica donizettiana e che si gioverebbe di una ritmica più mobile, in grado di alternare con più frequenza rubati, rallentandi, sottolineature di alcuni ariosi-chiave che racchiudono, nel loro involo melodico, il segreto del cupio dissolvi donizettiano, così affascinante ma anche così sfuggente.

Un direttore, comunque, interessante e, soprattutto, capace di tenere le redini ben salde a una compagine orchestrale non di altissimo livello (il clarinetto basso, ad esempio, ha incontrato alcune difficoltà nei salti previsti dalla scrittura donizettiana nello splendido assolo che apre il II Atto).

Lo spettacolo di Francesco Bellotto con scene e costumi di Angelo Sala, ha sofferto delle limitazioni imposte da un budget fin troppo risicato: l’idea di ambientare l’intera vicenda all’interno del manicomio in cui è rinchiuso Corrado, dopo i funesti eventi che formano la trama dell’opera, è parsa interessante, soprattutto nei richiami al romanzo gotico e a film intensi come Shutter Island di Martin Scorsese, e la narrazione è sembrata scorrere con discreta fluidità.

Che lo spettacolo fosse gestito al risparmio, però, è parso evidente e un festival donizettiano necessiterebbe di ben altra disponibilità economica per poter realizzare al meglio opere che, non essendo capolavori assoluti, richiedono con forza performance (anche da parte della regia) in grado di mascherarne i punti deboli.

Teatro non esaurito, ma presenza di pubblico comunque buona, specie tenendo conto della rarità della proposta, con calorosi applausi a scena aperta e a termine opera.

Gabriele Cesaretti per Operaclick

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