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L'intervista

Viscardi: “La fabbrica del futuro? In classe A, a luci spente e capace di reinventarsi all’istante”

Il fondatore e presidente onorario della Cosberg si trova ai vertici di alcune delle istituzioni più avanzate in tema di innovazione digitale: "Le tecnologie dovrebbero essere disegnate per essere gestite da chiunque e servire a gestire anche la conoscenza – gli intangibili – a disposizione di ogni collaboratore"

Da sempre l’innovazione è insita nella sua attività imprenditoriale: da quando nel 1982 ha fondato la Cosberg Spa, di cui è presidente onorario dopo averla ceduta ai figli, si è trovato a fare i conti con il futuro, cercando sempre di immaginarselo, anticiparlo e trovare la soluzione tecnologica più adatta alle proprie esigenze e a quelle dei propri clienti.

Oggi Gianluigi Viscardi rappresenta un’istituzione nel settore: ne sono dimostrazione l’infinità di cariche ricoperte a livello locale e soprattutto nazionale, dalla presidenza del Digital Innovation Hub Lombardia (oggi ne è consigliere) a quella del Consorzio per la Meccatronica Intellimech, nonché del Comitato Strategico del Joiint Lab – Robotic Intelligence League Bergamo. È anche vicepresidente e membro del Comitato Tecnico Scientifico del Cluster Tecnologico Nazionale Fabbrica Intelligente ed è tra i più grandi sostenitori dell’Open Innovation.

Un impegno instancabile che nel 2021 gli è valso la nomina a Cavaliere del Lavoro da parte del Presidente della Repubblica.

Viscardi, nemmeno il tempo di abituarci alla fabbrica 4.0 che siamo già al 5.0: come si sta al passo con una tecnologia che corre così veloce?

In realtà la fabbrica 5.0 è un’estensione della 4.0, nel senso che alle tecnologie abilitanti che contraddistinguono il 4.0 si aggiungono almeno due elementi strategici, cioè l’obiettivo di ottimizzare i consumi energetici e la centralità dell’uomo nella fabbrica stessa.

Entrambi questi obiettivi si possono raggiungere gestendo in modo efficace le tecnologie abilitanti, per esempio dall’IOT ai Big data per il monitoraggio dei consumi alla Robotica collaborativa, alle simulazioni software e alla Realtà Virtuale e Aumentata per rendere più agevole il compito degli operatori. In realtà a queste tecnologie oggi si aggiunge, rispetto a quelle proprie del 4.0, l’Intelligenza Artificiale, che come sappiamo ha avuto un’applicazione concreta solo negli ultimi periodi. Si tratta di una tecnologia che farà fare un grande balzo in avanti nel modo di vedere l’ambiente manifatturiero, nel concepirne i prodotti, la sostenibilità e il modo in cui l’uomo si interfaccerà con le macchine.

L’imprenditore potrebbe domandarsi: perché lo devo fare? Perché il mondo di oggi chiede velocità, sempre più personalizzazione e un profondo adattamento ai bisogni del cliente. Per farlo il mercato ci offre tecnologie spaventose che bisogna saper cavalcare: ci sono, sono abbordabili economicamente, ma le sue grandi potenzialità si esprimono solo se la tiene costantemente aggiornata.

Si parla sempre di 8 tecnologie abilitanti. Io ne aggiungo una nona: i giovani. Dobbiamo investire ogni giorno per tenerli aggiornati e avanzati, ma tutta la conoscenza deve diventare patrimonio dell’azienda.

Ma il mercato manifatturiero in che direzione sta andando? 

Oggi ci troviamo a lavorare con macchinari che, se va bene, durano due anni mentre prima potevi tenerli in fabbrica per 20 o 30. Cambia il prodotto e una macchina che magari mi è costata milioni all’improvviso non mi serve più. Il futuro non può che essere la servitizzazione: il produttore non ti vende il macchinario, ma te lo dà e viene pagato in funzione di ciò che produce, qualsiasi cosa faccia.

Dal canto suo il costruttore deve poterla riprendere indietro e riutilizzare: attualmente su una macchina di montaggio si tiene buono il 3-5% di media, poi si butta tutto. In Cosberg lavoriamo per arrivare al 60-70% di riutilizzo. Ma per farlo bisogna studiare tutti i prodotti in base a questo principio: dalla manutenzione rapida alla possibilità di utilizzarle per produrre altro. Negli ultimi 15 anni abbiamo lavorato in questo modo: facciamo macchine speciali, siamo dei sarti, ma poi sappiamo ricondizionarle perché tutto è pensato come se fosse un Lego. Questa è economia circolare: il saper e poter recuperare un impianto che vale svariati milioni.

Secondo lei si stanno un po’ superando i pregiudizi sull’intelligenza artificiale, soprattutto quei sospetti sul fatto che possa arrivare a sostituire le persone?

Sappiamo che ogni rivoluzione industriale ha portato con sé nuovi modelli lavorativi, più che generare disoccupazione. La preoccupazione sull’effetto dell’Intelligenza Artificiale nei processi manifatturieri – e non solo – è comprensibile e legittima. Tuttavia dobbiamo pensare a come sfruttare positivamente lo strumento che abbiamo a disposizione. L’obiettivo è eliminare le attività ripetitive, come del resto ha fatto l’automazione industriale, gestire imprevisti, progettare nuovi prodotti, delegando all’uomo compiti a maggiore valore aggiunto.

Stiamo attraversando un periodo di grandi transizioni, da quella digitale a quella energetica. Cosa devono fare le nostre imprese per non subirle ma sfruttarle invece a proprio vantaggio?

Le aziende del manifatturiero hanno a disposizione una grande opportunità: sfruttare questo momento per dare impulso alla propria trasformazione verso una maggiore competitività, perché questo è un treno che non si può perdere. Le PMI – soprattutto – devono trovare un momento, in mezzo ai tanti impegni del quotidiano, per fermarsi e immaginare il proprio futuro, capendo quale valore possono offrire al mercato con i propri prodotti e processi sfruttandone la digitalizzazione.

Sono sicuro che gli imprenditori italiani abbiano in testa o nel cassetto idee interessanti, se non geniali. E proprio la transizione digitale ed energetica può essere lo strumento giusto per metterle a terra. Non mi stancherò mai di sottolineare – inoltre – che oggi esiste un ecosistema dell’innovazione, o della Open Innovation, in grado di accompagnare le aziende proprio verso la realizzazione dei loro progetti. Quindi gli strumenti – di finanziamento e di competenze – ci sono, bisogna saperli cogliere nel modo giusto.

Senza dimenticare il tema della sostenibilità, che sta scalando sempre più posizioni tra le priorità: dopo le case green avremo anche le aziende green?

Le tecnologie per realizzare le fabbriche green sono ormai mature. Da un lato abbiamo l’hardware, la parte fisica. Pensiamo, come avviene nel mondo dell’automotive con la trazione elettrica, alle applicazioni con motori elettrici per la movimentazione industriale, che andranno a sostituire la pneumatica o l’oleodinamica. A parità di prestazioni diminuiranno quindi i consumi energetici. Questo favorirà, sull’altro fronte, un’integrazione molto più rapida ed efficace della digitalizzazione e dell’Intelligenza Artificiale, che avranno proprio l’obiettivo di monitorare le attività produttive e gli impianti, renderli più facilmente riconfigurabili, prevenire derive e anomalie, con la finalità ultima di ridurre l’impiego di risorse garantendo una maggiore sostenibilità dei processi e dei prodotti.

L’obiettivo deve essere la “Fabbrica in Classe A”: non deve inquinare, deve far crescere le persone, essere preparata ad affrontare il mercato e avere un patrimonio tutto intangibile. Gli imprenditori devono essere aiutati ed è questo il senso del Digital Innovation Hub che è una sorta di medico di base del digitale.

È vero anche che il contesto internazionale e geopolitico dentro il quale si muove il business delle nostre aziende rimane complicato: negli anni avete fatto i conti con il costo dell’energia, il costo e l’irreperibilità delle materie prime, i mercati chiusi, le guerre. Quali sono le difficoltà maggiori che oggi pesano?

L’attuale contesto geopolitico sta decisamente condizionando l’operatività e la redditività delle aziende italiane. L’impatto dipende molto dal tipo di business di ogni singola azienda. Quelle energivore stanno facendo i conti con il costo dell’energia e quindi sono costrette a rendere più efficienti i propri processi per continuare ad essere economicamente sostenibili. Poi i ritardi nelle consegne dei materiali, e i costi lievitati, hanno anche condizionato le relazioni con i clienti.

Uno dei temi sui quali vale la pena di riflettere è come mantenere la propria resilienza all’interno di una situazione internazionale così complessa, che temo non si risolverà a breve. Un possibile percorso da seguire è quello dell’accorciamento delle filiere, formando catene produttive all’interno di perimetri più contenuti e sicuri. Oltretutto consideriamo che proprio le filiere produttive costituiscono in Italia un modello industriale di eccellenza. La digitalizzazione potrebbe aiutare a consolidarle, polarizzandole intorno al tema della sostenibilità propria di filiera, sia a livello economico che ambientale.

Ma non possiamo non affrontare anche il tema dell’innovazione, che funziona solo se è affiancata dalla velocità: le aziende più vincenti sono quelle che sanno gestire il caos. Se ne parla poco, ma tutto questo sta portando al reshoring, al rientro in Italia delle produzioni. Ogni volta che un imprenditore al mattino “accende” la propria fabbrica sa che sta per affrontare una sorta di Gran Premio, durante il quale deve battere la concorrenza sul tempo. E dove si vincono i Gran Premi? Durante i pit stop, che nelle fabbriche potrebbero essere rappresentati dai cambi di produzione: un momento sto facendo una cosa, quello dopo devo saper fare tutt’altro. Quando si lavorava su lotti piccoli non ne valeva la pena e si andava a produrre nei Paesi low cost. Ora invece si sta tornando indietro. Qui alla Cosberg siamo in grado di assicurare un cambio di stabilimento completo in 13 minuti, mentre in tre cambiamo la produzione.

Da tempo le aziende manifatturiere segnalano un gap con il mondo della scuola: si aspetterebbero profili già più pronti a essere inseriti. Anche in ambito confindustriale sono stati attivati progetti interessanti, con le aziende stesse a prendere l’iniziativa e mettersi in gioco per arrivare a colmare questa differenza. È la strada giusta?

È fondamentale che imprese e scuole continuino a dialogare. Ci sono almeno tre buoni motivi, che servirebbero a colmare questo gap e tra l’altro a far crescere il tessuto sociale: l’orientamento, le competenze, i talenti.

Bisogna innanzitutto far capire che l’ambiente del manifatturiero è cambiato. Non è rumoroso, sporco e alienante come qualche decennio fa. Serve sensibilizzare i ragazzi, fin da quando sono pre-adolescenti. A questo serve l’orientamento – come il PMI DAY – degli studenti delle scuole medie.

Altro aspetto non da poco, quello di cercare di creare programmi scolastici che siano effettivamente in linea con le esigenze industriali. Capiamo che le tecnologie a disposizione delle scuole non possono essere quelle in uso presso le aziende, ma crediamo necessario far capire agli studenti dove sta andando l’industria. Per farlo è fondamentale che i ragazzi “mettano il naso” nelle aziende, e con loro, a maggior ragione, i professori. Questo deve essere un processo continuo. Si devono costruire cioè delle vere e proprie partnership tra le scuole e le aziende del territorio.

Per ultima, ma non meno importante, l’opportunità per le imprese di premiare le aspirazioni e il talento di studenti meritevoli che hanno voglia di mettersi in gioco nel mondo del manifatturiero.

Come si possono formare studenti, ma anche dipendenti già in organico, su lavori che oggi non esistono?

Bisogna anticipare i tempi. E il primo passo è sempre quello di trovarsi preparati. Per farlo, certamente si possono frequentare appositi corsi, per esempio sull’Intelligenza Artificiale, perché su questo fronte siamo ancora scoperti in termini di offerta di competenze. Ma io credo sempre che il modo migliore per formarsi, al di là di tutto, sia agire e testare sul campo. L’innovazione non si fa sul piano teorico – per quanto sia importante avere una buona impostazione di base – ma si fa progettando, provando e sbagliando: questo è il modo migliore per crescere.

Già dalla scuola dobbiamo insegnare ai ragazzi a saper lavorare in modo oggettivo e non soggettivo: progettisti e programmatori devono saper continuare il lavoro di un collega in qualsiasi momento, senza che ci sia un passaggio di consegne vero e proprio. Questa è l’intelligenza.

Lei come si immagina la fabbrica del futuro?

Mi immagino una “Fabbrica a luci spente”, che detta così potrebbe sembrare qualcosa di avveniristico e lontano dalla dimensione umana. Niente di più sbagliato. Vale proprio il contrario. E vi sono almeno tre buone ragioni.

Questa Fabbrica sarebbe progettata per permettere all’uomo di dare il proprio contributo senza alienarsi, favorendo la liberazione delle proprie risorse, della propria creatività, e lasciando che sia l’automazione intelligente a fare il lavoro ripetitivo, a riconfigurarsi.

In questa Fabbrica tutte le tecnologie dovrebbero poi essere disegnate per essere gestite da chiunque, qualunque sia il proprio grado di formazione. E queste stesse tecnologie dovrebbero servire a gestire anche la conoscenza – gli intangibili – a disposizione di ogni collaboratore perché possa eseguire al meglio il proprio lavoro.

Se la vediamo così, allora si prefigura un ambiente con al centro l’uomo.

Se l’è già immaginata anche strutturalmente? 

Sì, me la immagino sviluppata in verticale, su tre piani. All’operatore uno spazio circoscritto, pulito e ordinato come se fosse una clinica, in quello centrale: una volta ricevuti i materiali dal piano più alto, tutto “spento” e automatico, si dedica al montaggio del prodotto, facendolo poi scendere automaticamente al piano più basso dove si procede alla spedizione.

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