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Letto per voi

Monsignor Pizzaballa: “Vorrei una Chiesa che non si limiti solo a dire cosa non va, ma che dia speranza”

Pubblichiamo l'intervista che Daniele Rocchetti, presidente della Acli di Bergamo e creatore di Molte Fedi, ha fatto a monsignor Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme e pubblicata sul numero di giugno della rivista Jesus

Pubblichiamo l’intervista che Daniele Rocchetti, presidente della Acli di Bergamo e creatore di Molte Fedi, ha fatto a monsignor Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme appena nominato cardinale da Papa Francesco e pubblicata sul numero di giugno della rivista Jesus.

In un contesto di tensioni crescenti, il patriarca latino di Gerusalemme guida nel difficile equilibrio tra giustizia e perdono la sua Chiesa plurale e discriminata: “I cristiani”, dice, “vivono il conflitto scegliendo di starci e coltivando piccoli segni di riconciliazione”.

Un copione che sembra, purtroppo, già essere stato visto troppe volte: scontri violentissimi tra palestinesi e polizia israeliana all’interno della moschea Al-Aqsa di Gerusalemme; razzi incrociati tra Israele, Libano e Striscia di Gaza; un numero di morti (soprattutto palestinesi) in continuo aumento; raid violentissimi in Cisgiordania, attentati in terra di Israele. La novità di questi mesi è stata rappresentata invece dalle decine di migliaia di persone, quasi tutte ebree, scese in piazza nelle principali città israeliane per protestare contro la controversa riforma giudiziaria voluta dal premier Benjamin Netanyahu. A mostrare, nelle pieghe della protesta che mette al centro l’identità, il sistema politico e il peso della religione, una faglia sempre più profonda (e certo non colmabile
presto) tra ebrei religiosi, in particolare ortodossi, ed ebrei laici.
E i cristiani in tutto questo? Qual è il compito e il destino della piccola minoranza che vive nella terra dove è nato il cristianesimo? Ne ho parlato a lungo con monsignor Pierbattista Pizzaballa, dal 2020 patriarca latino di Gerusalemme. Quando sono a Gerusalemme cerco sempre di incontrarlo. Mi serve il suo sguardo per assumere e decifrare la complessità, andare oltre le letture ovvie o pregiudiziali. Profondo conoscitore di quella terra, monsignor Pizzaballa (già custode di Terra Santa) è uno dei più lucidi e acuti osservatori dei cambiamenti in atto.

Lei è in Terrasanta da più di trent’anni ed è stato chiamato a ricoprire diversi ruoli e forme di servizio al Vangelo. Che sogno di Chiesa custodisce?
Credo serva capire anzitutto dove siamo: i sogni devono avere un contesto. La Chiesa di Terrasanta, la Chiesa di Gerusalemme, è divisa in quattro Paesi diversi e da confini chiusi: Giordania, Israele, Palestina, Cipro. Il primo sogno, molto concreto, è avere una Chiesa meno frammentata, dove non sia necessario avere permessi per potersi incontrare. La gran parte dei cristiani che abitano in Giordania, o chi è palestinese e non ha un permesso, non possono venire in Israele. Per molti di loro è impossibile partecipare fisicamente a un incontro o a una veglia di preghiera qui a Gerusalemme. Può immaginare quanto sia difficile avere una linea comune, sentirsi parte di un solo corpo, quando le membra non si possono incontrare. In più, la nostra è una Chiesa composita: il 60% è costituita da donne e uomini di lingua araba, il 40% non è di lingua araba. Questa Chiesa cresce con il passare degli anni: è fatta di lavoratori stranieri, oltre 100.000, filippini, indiani, immigrati iracheni, rifugiati siriani. Rifugiati sono in Giordania e tantissimi anche a Cipro. Una Chiesa quasi parallela rispetto alla Chiesa storicamente presente. Il mondo arabo palestinese, quando parliamo dei cristiani che non sono arabi, si sente un po’ tradito: “E noi?”. Dunque, una Chiesa con anime plurali, tante ferite, realtà completamente diverse ma che appartengono a unico corpo.

Il suo sogno sulla Chiesa che è in Gerusalemme?
Noi viviamo in un Paese che si divide sempre su tutto. Diviso certo tra israeliani e palestinesi ma anche – lo vediamo in questi mesi – diviso tra israeliani tra loro e palestinesi tra loro. Sogno che la nostra Chiesa possa essere un segno di unità nella differenza. Vorrei poi una Chiesa che non si limiti solo a dire cosa non va. Troppe volte partiamo unicamente dall’analisi dei problemi, dal senso di lacerazione che ci attanaglia. Credo invece sia necessario – in questo contesto ferito e lacerato – partire da quella che è la nostra vocazione, la nostra missione. Consapevoli che siamo chiamati a dire una parola di verità, senza alcun dubbio, ma anche una parola carica di prospettive e, perché no, di speranza. Capace sempre di uno sguardo oltre il dolore presente. L’ultima cosa che sogno è un contributo che solo la Chiesa può dare, una riflessione fondamentale qui in Terra santa: la relazione tra giustizia e perdono. Non si può parlare di giustizia senza perdono e, insieme, non si può parlare di perdono senza giustizia. Nessuna prospettiva ci potrà essere se non si mettono in dialogo questi due temi. La nostra esperienza di fede e l’incontro con Cristo – soprattutto qui nella terra dove custodiamo il Calvario, che non è soltanto un luogo di morte e di dolore ma anche di perdono e di giustizia – la nostra testimonianza devono portarci a dire una parola chiara su questo”.

Non si può immaginare una Chiesa solo esposta dentro il conflitto ma neanche si può immaginare una Chiesa assente da parole sul conflitto. Come è possibile stare da credenti in questo spazio di intercessione?
Anche in questo caso, bisogna fare i conti con la diversità dei mondi che compongono il patriarcato. A pochi chilometri da qui è ben visibile il Muro che separa Gerusalemme da Betlemme e Israele dalla Palestina. Fuori vi sono altri tipi di conflitto: a Cipro vi è una divisione e una ferita che hanno una storia totalmente diversa; i cristiani che sono in Israele non vivono il conflitto ma piuttosto, benché cittadino dello Stato, subiscono una discriminazione; i giordani non vogliono sentire parlare di conflitto: hanno altri tipi di problemi, più di carattere economico e di perseguimento della stabilità politica. È evidente che qui a Gerusalemme non puoi non parlare del conflitto. Ma non va bene, neanche per i palestinesi, che il conflitto fagociti tutto. La nostra gente, i giovani, le famiglie, hanno gli stessi problemi che vivete voi in Occidente. Problemi legati alla formazione, all’educazione, al lavoro, alla trasmissione della fede, al dialogo interreligioso che qui è vita quotidiana, non esercizio per gruppi intellettuali. Proprio perché c’è il conflitto dobbiamo parlare della vita ordinaria. Credo che un modo per vivere bene il conflitto sia dunque di non limitarsi a parlare solo di quello. Non puoi evitarlo, è vero, ma se parli solo di questo dai ragione a chi il conflitto lo vuole e lo persegue. Servono dunque parole chiare, non equivoche, sull’occupazione e, insieme, serve una Chiesa capace di essere testimonianza limpida del Vangelo. Altrimenti rischiamo di essere solo una comunità sociale ma poco una comunità di fede. Più che parole abusate o slogan che rischiano di essere vuoti, vorrei aiutare i cristiani di questa terra a interrogarsi su come vivere dentro questo contesto. La risposta non è scontata. L’occupazione israeliana non finirà presto… E allora come vivere questo? Ci sono due soluzioni: andarsene o restare. Se resti, come resti? Con quale atteggiamento? Con quale spirito?.

Parlava prima di giustizia e perdono. Come è possibile coniugarle dentro le vicende di questa terra martoriata?
Da qualche tempo mi sto soffermando a ragionare sulla scelta che si impose al popolo quando fu chiamato a scegliere se stare dalla parte di Gesù o di Barabba, entrambe in fondo due figure di Messia. Barabba, in aramaico, significa “Figlio di papà”. È un titolo che scimmiotta la figura di Gesù, il vero Bar-Abba, il Figlio del Padre, che chiama quest’ultimo “Abbà”. Barabba era un attivista politico: lottava per la liberazione del suo popolo. Aveva un suo seguito, parlava di giustizia, di libertà: il suo era un messianismo semplice, concreto, attraente e tutto meno che utopico. Dall’altra parte c’era Gesù. Come patriarca latino di Gerusalemme, mi sono trovato fin dall’inizio in una situazione complicata all’interno della Chiesa e naturalmente all’esterno, nella situazione di conflitto più o meno armato. Come essere fedeli a Cristo senza dare l’impressione di non difendere il gregge a me affidato e rimanendo allo stesso tempo defensor civitatis? Cosa significa concretamente stare dalla parte di Gesù e non di Barabba? Come predicare l’amore ai nemici senza confermare una narrativa contro l’altra, israeliana contro palestinese, o viceversa? Come risanare le divisioni con scelte ferme e giuste, ma senza creare altre divisioni e sempre con misericordia? Come essere vescovo, chiedendo obbedienza, ma porgendo l’altra guancia a chi non obbedisce e fomenta conflitti? Ogni giorno anch’io sono obbligato alla scelta: Gesù o Barabba. In Medio Oriente, a Gerusalemme come ad Aleppo, ogni cristiano, come me, è posto dinanzi a questa drammatica scelta: Gesù o Barabba? Morire sulla croce o combattere? Come si può parlare di liberazione dalla schiavitù del peccato, e di perdono, quando il tuo popolo soffre per la dominazione di un’autorità straniera? Non significherebbe darla vinta all’oppressore? Prima di parlare di perdono non è necessario che si faccia giustizia? Come posso pensare di perdonare l’israeliano che mi opprime, finché sono sotto oppressione? Non sarebbe come dargliela vinta? Come si può parlare di relazione con il “Padre che è nei cieli”, quando tuo figlio, tuo padre, tua madre sono uccisi, arrestati e umiliati davanti ai tuoi occhi? Come si può parlare di gioia nello Spirito, quando sono privato dei miei diritti fondamentali? In fondo, Barabba, non è così male. È, anzi, ragionevole.

Bisognerebbe però aiutare a comprendere che scegliere Cristo non vuol dire scegliere di stare inerti di fronte al male del mondo.
Ha ragione. C’è la mentalità di Barabba, l’integralismo di chi vuol fare una sorta di nuova crociata, ma c’è anche l’indifferenza di un cristianesimo disincarnato. Eppure, in fin dei conti, il cristiano ha scelto Cristo, e questi è morto in croce, fallito e sconfitto. Dal punto di vista strettamente umano, il perdono assomiglia a una sconfitta, almeno nel breve periodo. Di fronte al male del mondo, quindi, compito del cristiano è semplicemente quello di soffrire, di morire in croce, di lasciarsi trafiggere, di farsi sconfiggere? Non ha nulla da dire di fronte al dramma che gli sta di fronte? Certamente non è così. Eppure, Gesù non ha liberato l’uomo da questa o quella oppressione umana. Gesù non ha risolto nessuno dei problemi sociali e politici del suo tempo. Non ha operato una liberazione, ma la liberazione. Ha ricuperato nella sua radice profonda la relazione tra Dio e l’uomo e degli uomini tra loro. Il cristiano, dunque, si muove innanzitutto partendo da questa consapevolezza e da questa esperienza, quella di chi è già stato liberato e al quale niente e nessuno può togliere quella libertà, nemmeno la morte, perché ha fatto esperienza di una vita che nessuno gli può portare via.

Qualcuno potrebbe obiettare che i problemi non si spostano…
Di fronte alla situazione del Medio Oriente certamente il cristiano si dà da fare come qualsiasi altro, perché la giustizia, la libertà, la dignità, l’uguaglianza tra gli uomini, creati a immagine e somiglianza di Dio, sono atteggiamenti di cui lui ha fatto esperienza personale, che gli appartengono e che vuole diventino comuni a tutti. La differenza sta nell’atteggiamento con cui il cristiano si muove in questo contesto. Essendo già stato liberato, non ha paura, non teme la morte. La sua lotta per la liberazione da situazioni concrete non ha un carattere di assolutezza, come se da quella liberazione concreta dipendesse tutta la sua vita. Il cristiano vuole e lotta per la giustizia e la dignità perché appartengono all’armonia riconsegnataci, ma non si lascia sconvolgere dal male che è di fronte a lui, anche se ne soffre come chiunque altro. Nel Medio Oriente viviamo momenti tragici. Vediamo cristiani fuggire, ma anche altri restare. Vediamo la distruzione di relazioni che hanno resistito per secoli. Ma sappiamo che ne nasceranno nuove. Secondo la mentalità di Barabba, la strategia cristiana è un fallimento, non porterà a nulla. È una strategia di pii desideri senza futuro. Secondo questa visione, il cristianesimo in Medio Oriente è impotente, finito, schiacciato. La testimonianza di tante persone, invece, soprattutto dei piccoli, dei poveri, quelli che non hanno nulla, ci dice che molto è distrutto, ma il seme è rimasto e da lì rinascerà nuovamente la vita. È dovere di tutti, in nome della fraternità che Cristo ci ha consegnato, attivarsi per sostenere ed aiutare i tanti piccoli del Medio Oriente e del mondo. Ma con sguardo redento, carico di concretezza e chiarezza di fronte al male, con il quale non si può dialogare, e allo stesso tempo forte e saldo nella certezza che la vita che ci è stata donata potrà esserci tolta. Per noi cristiani, quindi, Gesù non deve prendere il volto di Barabba: nella Chiesa, la giustizia non deve diventare giustizialismo, la trasparenza non deve tramutarsi in gogna, la giustizia della Croce non può annacquarsi nella giustizia mondana.

Quindi ciò che conta oggi è come “stare dentro” questa situazione…
Sì, c’è un modo cristiano di vivere il conflitto ed è quello di starci. Per l’una e l’altra parte del conflitto abbiamo il dovere di testimoniare la nostra partecipazione ai drammi e alle speranze di questi popoli. E poi serve partire dai piccoli segni. Il momento attuale è segnato da profonda sfiducia. Il mantra da parte israeliana è “che non abbiamo partner con cui parlare e di cui fidarci” e il mantra da parte palestinese è “che non possiamo parlare con gli israeliani perché se lo facciamo giustifichiamo la normalizzazione del conflitto e dell’occupazione”. Pare preclusa qualsiasi possibilità
di incontro e di dialogo istituzionale e pubblico. Restano quello che noi chiamiamo gli “anticorpi”: i tanti segni che ci sono in giro di speranza e, dico io, di futuro. Piccole realtà, a volte di nicchia – penso alle famiglie dei Parent’s Circle ma alle nostre stesse scuole del patriarcato, luoghi di incontro e di accoglienza – che sono importanti perché rappresentano un minimo di resistenza e di resilienza a questa situazione di profonda sfiducia. Non è difficile prevedere che la situazione attuale porterà gli attuali antagonisti a sbattere contro il muro. Ci saranno cocci da raccogliere e
ricomporre. Dopo che accadrà – non so quando e non so come – serviranno quei segni e serviranno quelle persone come punti di riferimento necessari dai quali ripartire.

La cronaca degli ultimi mesi parla di una profonda divisione tra la popolazione israeliana…
Parliamo da sempre del conflitto tra arabi e israeliani ma in realtà c’è un altro conflitto che è stato a lungo sommerso e che ora sta emergendo con grande forza: quello che separa gli ebrei religiosi da quelli laici. La complessità della situazione è proprio dovuta al fatto che non c’è soltanto il conflitto tra israeliani e palestinesi, c’è anche una divisione interna alle rispettive società. Pure i palestinesi sono frammentati: a parte Gaza, la zona di Nablus e di Jenin è fuori controllo da parte di Abu Mazen e così anche la zona di Hebron. E lo stesso vale per Israele, sempre più spaccato in due. Non è una divisione semplicemente politica tra destra e sinistra o tra religiosi e laici. È molto più profonda, è una divisione sull’identità stessa dello Stato di Israele, sul suo futuro. La stessa definizione di Stato ebraico e democratico è assai fragile. Israele è ora a un bivio e dovrà decidere. Non saranno decisioni semplici perché la divisione è molto profonda. Vi è pure un’altra divisione di cui si parla poco: il 20 per cento della popolazione di Israele è araba ed è la parte del Paese che cresce numericamente. In Israele l’unica parte ebraica che cresce demograficamente in modo esponenziale è quella ortodossa: i religiosi crescono del quattro per cento l’anno, i liberali diminuiscono del quattro per cento l’anno, non fanno figli. Siamo alla vigilia di grandi e profondi cambiamenti. Che sono il frutto delle politiche e dei percorsi che le società hanno fatto negli ultimi vent’anni.

Come vede il futuro di questa terra?
In molti circoli conservatori e anche diplomatici, si sostiene oramai che la soluzione “due popoli, due Stati” non sia più realizzabile. Dal punto di vista pratico è vero ed è probabile che si andrà verso qualcosa di diverso che oggi ancora nessuno sa cosa sia. È pure vero che la soluzione “uno Stato per due popoli” è anch’essa irrealizzabile a meno che non si dia vita a un regime di apartheid come era quello sudafricano. Ci sono troppe difficoltà, sia demografiche che di uguaglianza di diritti. La soluzione “due popoli, due Stati” è dunque una non-soluzione ma, ancora oggi, l’unica possibile. Le confesso però che mi sto convincendo sempre di più che l’idea di trovare una soluzione sia una tentazione diabolica. Ci sarà senz’altro una soluzione definitiva ma bisognerà accettare percorsi, fasi, cambiamenti e superare l’idea che si possa arrivare a un accordo che in modo rapido superi le controversie. Il conflitto ha sempre più carattere religioso e sempre meno politico e, quando questo avviene, il compromesso è sempre più complicato perché la religione ha una visione totalizzante che ama poco le mediazioni.

Un paio di volte l’anno lei si reca a Gaza a trovare la piccola comunità cristiana presente nella Striscia.
Per me è una consolazione. È la comunità che si lamenta di meno e pure avrebbe tante ragioni per farlo. Aiutata da buoni parroci e da religiose dà la sua bella testimonianza. Certo, la situazione di Gaza dal punto di vista sociale, politico e umanitario è vergognosa. Tutti hanno la loro parte di responsabilità e il prezzo più alto è pagato dalla gente normale. Eppure quando vado a incontrare i pochi cristiani rimasti (sono qualche centinaio su due milioni di persone) trovo una minoranza che mostra come sia possibile essere segno di speranza e di fraternità anche in situazioni così complicate. Lo scorso Natale durante la mia visita alla Caritas ho incontrato un direttore sanitario musulmano, che mi ha detto: caritas significa “love in action”, amore in azione. Credo sia una bellissima testimonianza.

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