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L'inchiesta

Conte, Fontana, Gallera: nei verbali tutti i rimpalli (e le contraddizioni) sulla zona rossa

Le ricostruzioni contestate dai pm ai vertici di governo e Regione

Le tensioni tra forze politiche, lo scarico delle responsabilità, la farraginosità della burocrazia al cospetto di un virus che invece correva veloce, velocissimo. E che, secondo i pm di Bergamo, poteva essere rallentato con la zona rossa in Valle Seriana, evitando all’incirca 4mila morti stando ai calcoli del microbiologo Andrea Crisanti, consulente della procura.

Alla fine, una cosa è certa: tutti potevano istituire la zona rossa, ma nessuno lo ha fatto. Il clima di grande insicurezza, acuito dagli enormi interessi ed equilibri in gioco (uno su tutti quello tra salute pubblica ed economia) hanno verosimilmente congelato la volontà di prendere decisioni chiare e tempestive, come sembra emergere dalle carte della maxi inchiesta sulla gestione della prima ondata Covid. Con tutto ciò che ne è derivato.

Sul punto, l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte fu sentito dai pm nei suo uffici il 12 giugno 2020. Secondo i magistrati dichiarò di “aver avuto per la prima volta contezza” di ciò che stava accadendo in Valseriana “al termine del Consiglio dei Ministri del 5 marzo 2020”. Una ricostruzione, secondo chi indaga, non aderente alla realtà, volta a rinviare nel tempo il momento in cui era realmente venuto a sapere della situazione di Nembro e Alzano. Dall’informativa della procura “risulta pacificamente che già il 2 marzo” l’ex premier fosse stato aggiornato su quanto stava accadendo a due passi dalla città di Bergamo. La conferma arriverebbe da una nota redatta dal coordinatore del Cts, Agostino Miozzo, in cui Conte veniva informato dall’Istituto Superiore di Sanità dei “numeri preoccupanti” e della “forte circolazione locale” del virus. La risposta, riportata nel documento, fu che la zona rossa andava “usata con parsimonia perché ha un costo sociale, politico, non solo economico, molto alto”, con la (non) decisione a rifletterci sopra.

Sempre secondo i pm, che l’ex premier fosse a conoscenza dei fatti prima del 5 marzo emerge anche dalle dichiarazioni del suo braccio destro, l’allora ministro della Salute Roberto Speranza. “Quando lei ha firmato la proposta di Dpcm – gli chiedono – ne aveva già discusso in proposito con il Presidente del Consiglio?”. “Sì. certo – è la risposta dell’ex ministro -. Ricordo anche della questione Alzano/Nembro, sollevata nel verbale del Cts del 3 marzo, ne avevo già parlato con il Presidente Conte il 4 marzo. In quei giorni peraltro, il confronto su tali questioni era chiaramente costante”.

Proprio come il governo, anche il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana e l’allora assessore Giulio Gallera erano al corrente della gravità della situazione, suggerita dagli scenari elaborati dall’epidemiologo Stefano Merler, il cui piano venne secretato “per non allarmare l’opinione pubblica”. Sentito dai pm il 29 maggio 2020, Fontana disse di credere “nella realizzazione della zona rossa. Che poi sarebbe stata utile non so dire, però a Codogno aveva funzionato. La nostra proposta è stata quella di istituire la zona rossa […] La nostra indicazione al Cts era di ricomprendere anche il Comune di Albino. Non era una scelta politica, ma tecnica. Ero dell’idea che bisognava prendere provvedimenti molto severi sulla chiusura dell’intera Regione. Dichiarazioni che stridono, per esempio, con quelle rilasciate ai magistrati dall’imprenditore bresciano Marco Bonometti, all’epoca ai vertici di Confindustria Lombardia: Regione era d’accordo con noi nel non istituire le zone rosse, ma nel limitare le chiusure alle sole aziende non essenziali. Posizioni, insomma, che sembrano variare a seconda degli interlocutori.

Alla domanda “sulla zona rossa la Presidenza del Consiglio ha rappresentato che qualora Regione Lombardia avesse voluto poteva istituire la zona rossa autonomamente, quale è la sua valutazione?”, secondo i pm Fontana rispose chiamando in causa la direttiva dell’8 marzo 2020, firmata dall’ex Ministro degli Interni Luciana Lamorgese. Indirizzata ai Prefetti, secondo Fontana “prevedeva che l’istituzione della zona rossa era competenza esclusiva del Governo”. Per Lamorgese invece, sentita il 12 giugno 2020, la direttiva non parlava né di zone rosse, nè tantomeno della loro istituzione, ma “solo di aspetti relativi all’ordine e alla sicurezza pubblica, ferme restando le competenze specifiche delle regioni”.

E poi le dichiarazioni di Gallera, messe a verbale dai pm il 28 maggio 2020. “Già dai primi di marzo volevamo istituire la zona rossa ad Alzano. Con i nostri epidemiologi e i componenti dell’unità di crisi – si legge – abbiamo condiviso l’idea che bisognava fare qualcosa di più; personalmente il 3 marzo ho anche interloquito in proposito con il dottor Brusaferro, al quale ho sollecitato la nostra idea di istituire la zona rossa per Nembro e Alzano. Ventiquattro ore dopo, però, fu proprio Fontana a negare di avere chiesto l’istituzione della zona rossa il 3 marzo, ma di avere semplicemente detto di valutare se alla luce degli elementi forniti vi erano le condizioni” per farla. La contrarietà alla zona rossa dell’ex assessore al Welfare emergerebbe anche da alcune chat. Ad ogni modo – e al netto di ogni possibile interpretazione – alla procura non risulta che Regione Lombardia abbia mai formalmente richiesto, concordato o sollecitato al Governo alcun provvedimento verso i Comuni di Alzano e Nembro.

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