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Giorno del ricordo

Tragedia delle foibe: “Trecentomila esodati furono italiani due volte. Per nascita e per scelta”

Ragioni geopolitiche, etniche, culturali, di classe e perfino religiose hanno portato al dramma degli infoibati

Bergamo. Venerdì 10 febbraio, cadrà la celebrazione del Giorno del Ricordo: come tutti sanno, è la data che rammenta la tragedia delle foibe e l’esodo giuliano, istriano e dalmata.

Questa commemorazione è stata stabilita con una legge dello Stato nel 2004, sotto la presidenza di Carlo Azeglio Ciampi, contro cui votarono, è bene ricordarlo, quindici deputati comunisti: la data del 10 febbraio fu scelta perché in quel giorno, nel 1947, venne firmato il trattato di pace che segnò il passaggio del litorale orientale alla Jugoslavia.

Al di là del mero dato cronologico, però, forse è bene rammentare ai nostri lettori, sia pure in modo molto succinto, in che cosa ha consistita questa triste pagina della nostra storia nazionale. La prima questione che si deve affrontare, quando si parla del confine orientale, è di carattere etnico: hanno ragione coloro i quali sostengono che gli Italiani, in Istria e in Dalmazia, si sono sovrapposti alle popolazioni slave o illiriche che già vi vivevano oppure è corretta una lettura di segno contrario?

Io, solitamente, tendo a spiegare il fenomeno delle foibe e dell’esodo paragonando quei territori a una faglia, in cui due zolle tettoniche, quella italiana sulle coste e quella slava all’interno, siano entrate in collisione, dopo secoli di sostanziale convivenza pacifica.

Il fenomeno che ha dato il via a questa collisione è stata la guerra, come spesso accade in questi fenomeni. Fin dai tempi dell’impero romano, le coste adriatiche orientali erano largamente antropizzate da genti italiche, allo stesso modo, le migrazioni slave avvenute nell’alto Medioevo si sono fermate e stabilite nell’immediato entroterra, segnando un vero e proprio confine etnico. Questa la prima risposta.

La seconda rimanda ai supernazionalismi novecenteschi: il XX secolo è stato caratterizzato da un’esplosione di sentimenti fortemente nazionalisti, spesso incanalati politicamente, in questa o quella direzione. A questi movimenti hanno fatto seguito tentativi di denazionalizzazione di opposto colore: nei territori giuliani, istriani e dalmati, prima una denazionalizzazione antitaliana ad opera degli Asburgo, poi una antislava, ad opera del fascismo e, infine, di nuovo una campagna antitaliana, messa in atto dal regime di Tito.

Quest’ultima, si è basata, oltre che sui normali sistemi di indebolimento identitario, anche sulle foibe. Questi massacri, avvenuti a due riprese, nel 1943 e nel 1945, non sono stati un genocidio, né nei numeri (per fortuna microscopici, rispetto ai grandi olocausti del Novecento) né nelle modalità: ma sono stati una minaccia, nemmeno troppo velata, di genocidio. Insomma, se i primi infoibamenti sono stati dettati dalla rabbia, dalla barbarie, dal rancore verso i fascisti e, più genericamente, gli Italiani, il fenomeno è andato via via assumendo il carattere di una minacciosa strategia: il motore di una pulizia etnica.

In altre parole, gli Italiani, nel 1947, poterono scegliere tra l’esilio e un futuro che si presentava assai pericoloso, dati i precedenti. Così, se ne andarono via in più di trecentomila: la stragrande maggioranza della popolazione istriana, giuliana a dalmata scelse l’Italia, piuttosto che il rischio di venire sterminata a casa propria.

Lasciarono tutto: le loro case, le loro attività, perfino i loro morti nei cimiteri. Fuggirono, quando Tito offrì loro questa possibilità, portando con sé solo una valigia da venti chili a testa. E l’Italia li accolse male: vergognosamente male. Non tanto i comunisti, che si resero protagonisti di alcune ignobili sceneggiate, come quella del latte versato sui binari a Bologna, quanto i democristiani, che, in ossequio ai dettami statunitensi, nascosero gli esuli come si fa con la razzumaglia, sotto il tappeto.

Allora, Tito si era disallineato da Mosca e faceva un po’ il pesce in barile: questo fece sì che l’Occidente lo coccolasse oltremodo. A ciò si aggiunga il fatto, assai probabile, che De Gasperi abbia scambiato la sovranità sul Litorale con quella sul Trentino-Alto Adige, pagando, tra l’altro, i danni di guerra alla Jugoslavia con i beni degli esuli. Tout se tient, dicono i Francesi.

Comunque sia, questi trecentomila e rotti Italiani, furono Italiani due volte: per nascita e per scelta. E furono trattati come ospiti scomodi: quasi fossero tutti fascisti, tutti
criminali di guerra. Poi, grazie alla loro caparbia volontà e alla solidarietà della gente, un poco alla volta, uscirono dai centri profughi e si fecero una vita, spesso brillante. Ma il loro trattamento resta una macchia nella nostra storia repubblicana. Alla fine, nel 2004, l’istituzione del Giorno del Ricordo restituì loro un poco di fiducia nello Stato italiano: fu un segnale di riconciliazione tra due Italie.

Oggi, questa data viene celebrata nelle scuole, nelle pubbliche amministrazioni, in convegni e incontri pubblici: è il segno che siamo quasi diventati un Paese normale. Eppure, vi sono ancora strumentalizzazioni e polemiche, di opposte posizioni politiche, che cercano di trasformare questo dramma nazionale in una questione di parte: la solita divisione degli Italiani in guelfi e ghibellini. Invece, le vittime degli olocausti, delle stragi, della crudeltà umana, andrebbero ricordate tutte, con onestà intellettuale e compassione.

E, a maggior ragione, se si tratti di vittime innocenti e di nostri compatrioti. Perché, nel loro piccolo (parliamo pur sempre di un numero di morti che oscilla tra i 5.000 e i 15.000, uccisi in maniera atroce) gli infoibamenti sono un’epitome dei genocidi del XX secolo: ragioni geopolitiche, etniche, culturali, di classe e perfino religiose hanno portato alla tragedia delle foibe. Su questo dovremmo riflettere, invece di litigare. E celebrare il 10 febbraio con un sentimento concorde, come una tragedia di tutti, un dolore di tutti.

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