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Il ricordo

Milva, la felicità era “cantare nel cortile di nonna Antonia”

I ricordi della cantante e attrice applaudita in tutto il mondo: l’estasi per Bergamo, Città Alta, Porta Dipinta, Sant’Agostino

Quanti appellativi per lei, alla memoria, per tenerla viva, dopo che di fatto era uscita dal ricordo di chi avrebbe potuto e dovuto onorarla. Per Maria Ilva Biolcati uno degli appellativi più in uso era “la Rossa”. E questo lo si vedeva, l’hanno visto moltitudini di spettatori quando calcava da protagonista assoluta qualsiasi platea del mondo, una delle non molte artiste di statura cosmopolita. Poi, Milva “la amazzone”, Milva “la Pantera di Goro”, per distinguerla – ma non ce n’era proprio bisogno, dalla “Tigre di Cremona”, cioè Mina o da Iva Zanicchi, l’aquila di Ligonchio.

“Milva era lei, splendidamente Milva, con la sua genialità, la sua versatilità, l’incandescenza della lava vulcanica, sia nella canzone sia nel teatro. Soprattutto come donna, con una
personalità travolgente, ma che sapeva vivere tutte le situazioni, tutte le circostanze, che dominasse la scena, calamitando le platee con il suo estro, o che incontrasse un giornalista.

Non amava le interviste all’acqua di rose, della serie “a cosa stai lavorando?”, quali sono i tuoi programmi?”, le solite ritualità banali. Preferiva approfondire, raccontarsi, confrontarsi. L’avevo conosciuta molti anni fa, diciamo una quarantina, lei già una “star”, io cronista costretto all’attualità che ne giustificava lo spazio sui giornali. Nacque un rapporto, diciamo una conoscenza anche se è stato qualcosa di più perché poi si sviluppò un percorso di incontri, di narrazioni, di rivisitazioni che erano un viaggio attorno e dentro la carriera, sì, ma soprattutto la bellezza della sua grande umanità. Qualche volta, con manifesta e dichiarata paura di un guasto meccanico o di un incidente – che lei non si poneva – l’accompagnai anche in auto e qui parlo degli incontri a Lugano, dove talvolta capitava per la TV dei tempi di Marco Blaser oppure per andare in scena, al Sociale di Bellinzona superba interprete di “Capitan Uncino”.

Milva ha segnato la storia della canzone italiana, tra i mille motivi portati al successo e in vetta alle classifiche, è d’obbligo ricordare “Bella ciao”: quando si dice il destino, con certe coincidenze.

È morta proprio alla vigilia del 25 aprile, l’anniversario della Liberazione, con le relative forti evocazioni, di cui era peraltro icona in coerenza con il suo sentire, le origini, la sua identità, pensiamo anche a “la Filanda” o “la Rossa” di Enzo Jannacci (ma come si fa a ricapitolare un itinerario di canzoni durato oltre mezzo secolo) e facciamo un salto più su, con il teatro, quindi Brecht e Strehler (“Die Dame” in Germania, ovunque acclamata).

Stiamo sul personale: il generale è stato esplorato, purtroppo tardivamente, quando forse sarebbe stato il caso di onorarla di più da viva invece di alzare monumenti tardivi. Uno degli avvicinamenti particolari con Milva fu per raccogliere la sua familiarità con il dolore, alla voce “depressione”. Doveva essere un colloquio: fu un eccezionale monologo. Un fiume in piena, dall’infanzia fino agli anno Novanta. “Nella mia vita non è andata come avrei voluto e si è affermata solamente l’artista.

La paura della sofferenza,
la depressione, i colloqui con l’Angelo

La donna è rimasta troppo penalizzata” e aggiunse un’immagine che le piaceva: “Sono stata sbattuta nelle città di asfalto, come dice Brecht, dai boschi neri nel ventri di mia madre. Sono stata portata nelle strade che ci crescono dentro. Ho dovuto pagare un prezzo molto alto al successo, rinunciando a molto tempo con mia figlia Martina, quando era piccola, fino ai suoi 15 anni. È un rimorso che mi porto dentro”.

Un’ondata di ricordi, dall’angoscia di morire quand’era bambina, dopo la morte di una cuginetta: “Volevo andare sempre nel lettone, dormire con mia mamma, sentire la sua mano nella mia. Così fino a 17 anni. Quando tornavo a casa dal collegio, sfrattavo mio padre per respirare quella sicurezza affettiva”.

Punto centrale, appunto la depressione. Riassumo: “Mi sono ispezionata dentro. Naturalmente, essendo debolissima, non ce la facevo da sola in questa fatica. Ho avuto un aiuto enorme da uno psicanalista che si è prestato per farmi una terapia d’appoggio… Non mi bastava però questo sostegno. Sono dovuta ricorrere a un medico che cura le nevrosi e le depressioni. Ho reagito, eccomi qua”.

Una confidenza alla quale ho pensato spesso in questi anni da quando Milva aveva deciso di lasciare la scena, perché aveva anche una forte idea della dignità. Le chiesi ad un certo punto quale fosse la sua paura più marcata. Risposta: “Quella di essere colpita dalla malattia. La sofferenza mi terrorizza”. Una vicenda parallela a quella di Nino Manfredi. Straziante, considerando la vitalità e l’amore per la vita di entrambi. Le stazioni di quel viaggio furono molte, anche toccanti, intime, profonde. Ad esempio: “Converso con il mio Angelo custode da molti anni, da quand’ero in collegio dalle mie amatissime Canossiane, dalle quali ho ricevuto premure dolcissime, Suor Giannina era delicatissima”.

L’estasi per Bergamo, Città Alta,
Porta Dipinta, Sant’Agostino

Quando aveva qualche ritaglio di tempo libero, si recava a Blevio, sul lago di Como, dove sognava di tornare a vivere quella che chiamava la sua maturità (ma Milva era una donna nata già matura). Tappa d’obbligo al cimitero, “per dialogare con mio padre. Gli dico che un giorno arriverò anch’io, lì, al suo fianco. E che ci ricongiungeremo, perché il Credo della Chiesa, che ho imparato da piccola e che mi piace recitare, mi dà questa consolante certezza. Non sono una bigotta e neppure una superstiziosa. Sono per una fede vestita di Pasqua”.

L’ultimo incontro con Milva, che era estasiata di Bergamo, di Città Alta, di Porta Dipinta, del pratone alla Fara e di “Sant’Agostino” fu per discorrere di felicità, anche qui con molte soste di vita, molti gustosi “spicchi”, senza sdolcinature inutili. Milva era una che amava stare sul pezzo.

“Sul palcoscenico, quando canti, per esempio, ti capita di essere felice forse una volta ogni dieci anni. Si mischiano tanti fattori e più andiamo avanti tecnologicamente, meno – quando canti – pensi alla felicità. Rasenti la felicità in rarissimi momenti in cui tutto funziona alla perfezione. Ma, appunto, siamo all’eccezionalità: la tua voce, i musicisti, le luci, il suono, il pubblico. Raggiungi un pathos straordinario, che capita raramente. Mi sono sentita spesso, durante un concerto, in uno stato di grazia, ma anche qui la felicità più forte è vestita da bambina: l’ho sperimentata nel cortile di mia nonna Antonia. Più che cantare, forse urlavo, ma davo libero sfogo alla mia natura, al mio essere persona, al fatto che potevo tirar fuori tutta la mia grande voce. Ero magrissima, da far spavento ai miei vicini, nella contrada, ma mi esaltavo a sentire la mia voce salire in gola. Mi hanno dato godimento alcune canzoni, come certe note, quando ti vengono particolarmente bene, in Lili Marlene, in un motivo che potrebbe anche essere Alexander Platz, ma non nel ritornello, quando canto forte, quanto piuttosto nella strofa che è quasi parlata, descrittiva di una situazione. Qualche volta mi sento molto serena, matura, leggendo. Per esempio, nel libro “La lingua salvata” di Elias Canetti, una biografia scritta in modo originalissimo che ti dà slanci inverosimili. Però, per favore, non mischiamo le carte: la felicità è un’altra cosa. Non me la confondere e non me la ridurre a una canzonetta, sennò, ti strozzo!”.

Promessa fatta e sempre mantenuta, cara, indimenticabile Milva. Mi riecheggiano ancora dentro, nel cuore e nella memoria, queste parole, l’eco della tua voce. Ora sei là dove in più di un colloquio hai immaginato come capolinea: i riabbracci da lungo attesi, la serenità, un’alba senza fine, nella brezza del mattino.

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