• Abbonati

Musica

Il discomane

Splendido Garland Jeffreys: un disco costellato di piccoli gioielli

Un po’ a sorpresa (vista l’età dell’artista) è uscito "14 Steps to Harlem", chè e una sintesi perfetta dell’ispirazione musicale di Garland Jeffreys. Ma ascoltate anche Willie Nile che canta Dylan.

ARTISTA: Garland Jeffreys
TITOLO: 14 Steps to Harlem
GIUDIZIO: ****

Provo affetto per Garland Jeffreys, lo ascolto dall’età di 14 anni. Ai tempi rimasi folgorato da un suo disco intitolato Ghost Writer. Allora mi attirava tutto quello che sapeva di contaminazione. Non mi era sufficiente un genere, piuttosto che un altro; amavo tutto quello che era incontro tra culture, suoni, influenze. Ghost Writer rappresentava un po’ tutto questo mischiando in modo disinvolto rock, soul, reggae. I testi poi erano mai banali: da un lato i temi sociali dell’emancipazione, della discriminazione razziale, dall’altro l’attenzione al quotidiano, alle piccole storie ordinarie, agli affetti famigliari, al ricordo.

Dopo Ghost Writer, che resta uno dei miei album preferiti di sempre, Garland Jeffreys ha acquisito nei miei confronti crediti talmente alti da obbligarmi a seguirlo in tutta la sua carriera successiva. E’ quindi un trentennio che non mi perdo una sua uscita discografica, anche quelle meno significative.

Poi qualche anno fa anche un acuto commerciale: la canzone Matador ha ampliato il suo pubblico e se non è stata proprio una hit, è stato un brano in qualche jingle pubblicitario utilizzato, garantendo all’artista un minimo di sicurezza economica.

Nell’ultimo decennio, nonostante l’età avanzata (oggi l’artista porta sulle sue spalle più di 70 primavere) Garland Jeffreys ha prodotto solo lavori di buon livello: Truth Serum, The King of in Between, sono due gioielli, freschi e, per certi versi, emozionanti. Oltre a questi va ricordato la ristampa di un vecchio live, At the paradise Theater Boston 28 Oct 1979, che vi segnalo per l’importante contenuto artistico.

Grazie alla sua produzione discografica e all’attività live, oltre che al suo riconosciuto spessore umano, Garland Jeffreys in tutti questi anni ha arricchito la sua carriera con numerose collaborazioni, con artisti affini che così gli hanno manifestato la loro ammirazione: il Boss, alcuni componenti della E street band, i Rumour di Graham Parker, Lou Reed, Elliott Murphy, Chris Spedding, Phoebe Snow, David Johansen hanno voluto condividere, chi in studio, chi live, le proprie esperienze artistiche con Garland Jeffreys; i Circle Jerks hanno rivisitato la sua Wild in The streets, facendo un inno punk. Di lui un giorno Bob Marley disse: Garland Jeffreys suona e canta il miglior reggae d’America.

garland jeffreys

Nel mese di maggio, dell’anno 2017, esce un po’ a sorpresa (vista l’età dell’artista) questo lavoro, 14 Steps to Harlem, chè e una sintesi perfetta dell’ispirazione musicale di Garland Jeffreys.
Vi troverete tutti i temi musicali e letterari dell’artista e sarà un po’ come tornare a casa. Nessuna sorpresa ma tante sicurezze, prima fra tutte quella di trovare una qualità artistica elevata.

La produzione è affidata a un artista che adoro ovvero James Maddock (ascoltate se potete tutta la sua discografia) e la band è formata da Mark Bosch alla chitarra, Brian Stanley al basso e Tom Curiano alla batteria con la partecipazione straordinaria di Brian Mitchell (tastiere e fisarmonica), Ben Stivers (tastiere), la figlia Savannah Jeffreys (piano e voce) in Time goes away e Laurie Anderson (artista dell’avanguardia newyorkese e moglie di Lou Reed dal 2008 fino alla sua morte nel 2013) al violino.

Oddio non tutto suona perfetto: l’introduzione lasciata a When You call my name, sa un po’ troppo di anni ’80 e forse manca dell’ispirazione giusta. A poco valgono i synt, le orchestrazioni (troppo) pesanti. Ma è un momento perché già con la successiva School Yard Blues, ogni dubbio passa: il brano è serrato, ben arrangiato e anche la voce, pur troppo simile a quella di Mick Jagger, cala l’ascoltatore in pieni anni ’60. Va detto però che il nostro il meglio di sé lo esprime con le ballate, quelle lente, quelle che meglio evidenziano le sue doti di interprete, quelle dove più che altrove i generi si mescolano fra di loro: così la title track che a volte sembra un po’ troppo Walk on the wildside, è perfetta con le tastiere sullo sfondo (organo e piano) e i cori in primo piano. Il brano è musicalmente coinvolgente e il testo intriso di malinconia, descrive di quanto l’artista seguiva il padre che alla mattina quando si recava al lavoro. Il crescendo strumentale è estremamente efficace.

Venus è divertenente e scorre come l’acqua fresca, ma è con Reggae on Broadway che l’artista fornisce un’altra prova che merita la menzione d’onore. Come dice il titolo si tratta di un reggae al quale Jeffreys toglie ogni possibile patina di potenziale noia, grazie ad un’interpretazione impeccabile e ad una melodia facile ma non banale.

Time Goes Away è un ‘intensa ballata con la steel di James Maddock a menare le danze e la figlia di Garland, Savannah, al controcanto; la melodia è azzeccata, forse un pizzico sdolcinata ma, ad ogni modo il brano, scorre via bene.

Più riuscito secondo me è Spanish Heart, un brano fresco e veloce; questa volta è la fisarmonica di Brian Mitchell e il mandolino, ancora di James Maddock, a dare qualità al tutto ma anche una scrittura che soprattutto nel refrain è efficace.

Decisamente bella è I’m a Dreamer, un brano lento d’atmosfera, provvisto di un sottile linea di inquietudine, più parlato che cantato che ci riporta un Garland Jeffreys più riflessivo che altrove.

Due le cover del disco: la prima è Waiting for The man, ovvero la rilettura di un brano dei Velvet Underground, scritto da Lou Reed. Le versione è elettrica e incalzante e tutto sommato fedele all’originale.

Più sorprendente quella di Help dei Beatles. Francamente non so cosa lo abbia spinto a fare una cover del quartetto di Liverpool che rappresenta sempre un rischio notevole. In realtà, il brano più lento e dilatato dell’originale, vive di una sua bellezza autonoma; evidente la mano del produttore James Maddock che ad un certo punto introduce il suono di una fisarmonica che sottolinea la dolcezza della rilettura.

Coloured Boy Said è un’altra ballata, immagino dedicata a Obama, un po’ sottotono rispetto al resto del lavoro mentre invece decisamente splendido il brano che lo conclude, ovvero Luna Park Love Theme, un’intensa ballata intrisa di nostalgia e di passione, suonata magnificamente.

Salvo rare eccezioni, la carriera di Garland Jeffreys non ha avuto grandi picchi commerciali e non sarà certo questo disco a cambiare il corso. Tuttavia 14 Steps to Harlem è un disco splendido, da ascoltare con attenzione, perché costellato di molti piccoli gioielli. Buon ascolto.

Se ti è piaciuto ascolta anche:

Bob Marley: Natty Dread
Lou Reed: Coney Island baby
Graham Parker and Rumour : The Up Escalator

Legenda giudizio

* era meglio risparmiare i soldi ed andare al cinema;
** se non ho proprio altro da ascoltare….
*** in fin dei conti , poteva essere peggio
**** da tempo non sentivo niente del genere
***** aiuto! non mi esce più dalla testa

********************************************************************

Segnalazioni

Lorde – Melodrama ***1/2 – di Lorde mi colpiscono molte cose. Prima di tutto l’aspetto anagrafico: 20 anni sono pochi, ma se si considera che l’artista a questa giovane età è già al secondo album, dopo il grande successo del primo, pubblicato all’età di 16 anni , il dato desta ancora più sorpresa. In secondo luogo luogo la maturità dell’artista: fare un secondo album dopo quello di esordio che ha venduto 5 milioni di copie non deve essere facile. Le pressioni in casi come questo sono molte: della casa discografica, del pubblico e perdere la rotta è un attimo.
Non in questo caso perché Melodrama è decisamente un bel lavoro, moderno, neppure troppo schiavo delle mode. Vi è abbondante uso di elettronica, ma mai fine a se stessa o per riempire vuoti creativi. Anzi la stessa elettronica è messa al servizio di un’ispirazione per nulla banale (Bowie ebbe a dire che in Lorde sentiva la musica del futuro e se lo diceva lui c’era certo da credergli).

Il riferimento che mi viene maggiormente in aiuto per dare un’idea dell’artista è quello di Kate Bush anche se quest’ultima è più sperimentale, mentre Lorde più legata al pop. Ad ogni modo il disco è senz’altro riuscito e potrebbe piacere anche a chi più incline ai suoni rock più tradizionali.

willie nile

Willie Nile – Positively Bob: Willie Nile Sings Bob Dylan ***1/2 – probabilmente stupirò nel dire che questo è un disco, prima di tutto, divertente, estivo, perché francamente Bob Dylan ha tanti meriti ma forse non quello di essere leggero, sbarazzino. E forse neppure Willie Nile è quello che si suol dire “un compagnone”: la sua carriera ha visto alla luce album costruiti con serietà, rigore, poche concessioni al mercato. Il suo è sempre stato un rock senza contaminazioni, puro, che gli ha garantito un seguito di fan affezionati riservandogli però meno soddisfazioni commerciali di altri artisti più blasonati e che meglio di lui hanno saputo cogliere gli umori del mercato discografico (Tom Petty tanto per fare un nome).

Tuttavia non vi è dubbio che Willie Nile, lo stesso Petty, Elliott Murphy abbiano pagato un grosso debito, almeno di ispirazione, a mr Zimmerman, senza il quale probabilmente non sarebbero neppure arrivati a pubblicare il primo disco. Ecco forse il motivo di questo album tributo che è una vera e propria sorpresa per la freschezza dei suoni, per gli arrangiamenti che in alcuni casi stravolgono l’originale come ne caso di The Times they are A-changin’.

Che d’altra parte le canzoni di Dylan si prestino a diversa chiave di lettura è lo stesso autore che lo ha provato nei tempi riproponendo versioni che nulla avevano a che fare con l’originale. Qui, i richiami sono un poco più rispettosi, soprattutto nello spirito che è è quello degli anni ’60.

Qualche caduta di gusto a mio parere c’è: Blowin’ in the Wind diventa una canzoncina, ma in genere le riproposizioni funzionano a meraviglia come quella rigorosa di Hard Rain’s A- Gonna Fall, quella coinvolgente di You Ain’t Goin’ Nowhere e quella struggente di I Want You. Non solo per gli amanti del grande Bob.

Iscriviti al nostro canale Whatsapp e rimani aggiornato.
Vuoi leggere BergamoNews senza pubblicità?   Abbonati!
commenta

NEWSLETTER

Notizie e approfondimenti quotidiani sulla tua città.

ISCRIVITI