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Letto per voi

La Bardot e gli altri: dolce vita in Costa Azzurra sui motoscafi Riva

Su Sette, il settimanale del Corriere della Sera, Enrico Mannucci ricorda il playboy Gigio Rizzi, scomparso recentemente. Ma è lo spunto per raccontare la dolce vita della anni Sessanta legata al mito dei motoscafi Riva, nati sul Sebino e diventati simbolo di eleganza e confort sull'acqua.

Su Sette, il settimanale del Corriere della Sera, Enrico Mannucci ricorda il playboy Gigio Rizzi, scomparso recentemente. Ma è lo spunto per raccontare la dolce vita della anni Sessanta legata al mito dei motoscafi Riva, nati sul Sebino e diventati simbolo di eleganza e confort sull’acqua.

 

Il 24 giugno scorso, assieme alle notizie del terremoto che aveva scosso la Lunigiana, le convulsioni del Pd e del Pdl, i nefasti presagi finanziari di Beppe Grillo e la telenovela delle dimissioni di Josefa Idem, una pagina intera di molti giornali era dedicata alla morte di un playboy, Gigi Rizzi.

Pur inquietati dagli scenari politico-economici dell’Italia, i lettori – quelli, almeno, che erano giovani negli Anni 60 – non sono riusciti a non provare un brivido di nostalgia e un filo di malinconia.

Quel necrologio riportava a un mondo dorato: una bella ragazza che prende il sole, un motoscafo che vola sulle onde, una scia bianca sul mare azzurro.

Perché Gigi Rizzi – anzi, Gigì, alla francese – era l’italiano che aveva sedotto la mitica Brigitte Bardot. Una storia d’amore durata un’estate a Saint Tropez e recitata sull’acqua, con un palcoscenico fisso: «All’ormeggio c’era sempre un Riva ad accoglierci».

BB, in cinque anni, ne comprò addirittura tre. Lo fece perché era appassionata ma anche per far dispetto a Roger Vadim e a Gunther Sachs, il regista e il playboy – tedesco, però – che un tempo aveva amato e che, anche loro, possedevano un Riva.

Altri amori, altre ragazze ricordano quel tempo.

Il motoscafo, invece, si è sempre chiamato Riva. I favolosi Anni 60 non sarebbero stati così favolosi senza quei motoscafi che sfrecciavano nel Mediterraneo e si davano appuntamento nelle località più esclusive.

Li pilotavano re (di Arabia Saudita, Giordania e Marocco), principi (Ranieri di Monaco), scià (di Persia, naturalmente) e miliardari (dall’Aga Khan a Howard Hughes, da Onassis a Kashoggi).

E poi attori: Richard Burton e Sean Connery, Jean Paul Belmondo e Peter Sellers. Tutti immortalati orgogliosamente alla guida di uno di quegli elegantissimi scafi che combinavano legno pregiato e tecnologia d’avanguardia.

Perfino il più principe di tutti, il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, non aveva saputo resistere al fascino.

Il fatto curioso è che questa Rolls Royce del mare – come sono stati chiamati spesso i Riva – era nata nelle acque chiuse dei laghi lombardi, prima quello di Como poi quello di Iseo.

Era il 1842, quando Pietro Riva, giovane muratore comacino che sapeva anche aggiustare le barche, era stato avvicinato da un pescatore di Sarnico che aveva due battelli danneggiati da una piena. Sarebbe stato capace di sistemarli?

Così nasce a Sarnico, sul lago d’Iseo, il primo cantiere, che, in realtà, è una baracca di legno (oggi è un esempio celebrato di architettura industriale, con la cosiddetta “Plancia”, l’ufficio del presidente, che si protende sul lago come “la cabina di un dirigibile”).

Tornando indietro nel tempo, non si tratta solo di riparazioni, si comincia a costruire da cima a fondo.

L’intuizione giusta, però, l’ha il figlio di Pietro, Ernesto, il terzogenito. È andato a Laglio a imparare il mestiere, ha montato qualcuno fra i primi motori a scoppio marini, convince il padre a comprare un terreno e tirar su un vero cantiere dove varare barche da trasporto e canotti a quattro remi.

Poi punta più su: un battello per 25 passeggeri con motore a caldaia. È riuscito così bene che ne fa uno anche per sé e comincia a organizzare gite turistiche sul lago.

Siamo ai primi del Novecento. La tragedia non ferma la famiglia. Nel 1907, Ernesto muore schiacciato da uno scafo il giorno del varo.

Ma non muore la Riva.

Il figlio Serafino ha ereditato le passioni paterne. Se possibile, anzi, le ha moltiplicate. Crede nei motori, nella velocità – del resto, è il tempo del futurismo – e si specializza in quelli che cominciano a essere chiamati motoscafi. Ne fa uno che sfreccia sull’acqua a 20 chilometri l’ora, una velocità pazzesca.

Contemporaneamente, si mostra sensibile ai capricci dei clienti più ricchi: punta sui motoscafi di lusso, per gente che in acqua vuol trovare lo stesso comfort che trova a bordo di una Rolls o di una Bugatti.

La mission, come si direbbe oggi, viene interrotta dalla Seconda guerra mondiale.

Ma riprende presto, con Carlo, figlio di Serafino, quarta generazione. Nel 1947, incontrando per caso in treno un vecchio amico, trova un socio, Gino Gervasoni, che gli permette di superare un momento di difficoltà.

Passano cinque anni e i due trovano l’America, cioè l’esclusiva per l’Italia dei motori statunitensi Chris Craft. «Ho intenzione di prendere cinquanta motori all’anno», gli americani trasecolarono, anche per loro era una commessa pazzesca: nessuno al mondo ne comprava tanti.

C’era però un accorto corollario: «Comincio a pagarvi solo dopo aver venduto questi primi cinquanta».

Era una scommessa, e agli americani piacque. Praticamente era l’atto di nascita per il mitico Aquarama con lo scafo in mogano, assoluto status symbol negli anni del boom, in Italia e non solo. Arriva, poi, l’autunno caldo, tornano i momenti difficili.

Carlo è l’ultimo della dinastia a capo dell’azienda (anche se le figlie, Lia e Pia, continuano un’attività di restauro e commercializzazione dei motoscafi d’epoca in sintonia col gruppo Ferretti, l’attuale proprietà dei cantieri), nel 1970 si dimette da presidente.

I cantieri sono stati comprati dalla Whittaker di Los Angeles che, peraltro, danno fiducia a Gervasoni.

E la linea non cambia.

Nel 1972 viene varato il primo cabinato interamente Riva e poco dopo nasce un nuovo must, il Superamerica, pietra miliare nel design nautico. La linea è tracciata ed è quella dei grandi motoryacht. Più tortuosa, invece, è la strada della proprietà. Arriva un gruppo arabo, poi, nel 1988, gli inglesi della Schroder Wagg.

Due anni dopo (intanto, da un gemellaggio con Maranello, è nato uno scafo col cavallino rampante: il Riva 32 Engineering Ferrari) passaggio di mano fra britannici.

Un segno del destino: la Rolls Royce compra il 75% dei cantieri. Effimero, però, visto che una decina d’anni dopo la crisi tocca la casa madre britannica che deve dismettere l’impegno.

Dopo un interludio, arriva il cavaliere bianco, e stavolta parla italiano, coi cantieri Ferretti che aggiungono Riva a un già ben nutrito pacchetto di brand prestigiosi, aprendo un nuovo cantiere, a La Spezia, per la costruzione dei motoryacht più grandi. I grandi scafi.

Ora la gamma si è allargata assai con una decina di modelli, dai piccoli Aquariva che continuano la tradizione dell’Aquarama al più grande Riva mai sceso in mare, un 40 metri che sta per essere varato su ordinazione di un cliente brasiliano.

Lo scarto è grande, troppo verrebbe da pensare: uno stesso produttore per berline e supercar… «E invece non c’è contraddizione », spiega Ferruccio Rossi, Ad di Riva e di Ferretti Group: «Certo, in un grande motoryacht ogni particolare è discusso col cliente. Ma anche i nostri scafi più piccoli sono in gran parte personalizzati: nessun modello è prodotto in più di 20 unità all’anno, e, per ognuno, colori, interni e talvolta anche strumentazione sono fatti su ordinazione».

Ha scritto Luca Doninelli, in un volume per il 170° anniversario: «Fabbricati per il mito, anch’essi nature vive, non fatti di parti ma organismo unico e continuo, con un sistema respiratorio e uno circolatorio, lucenti nel loro legno e cromo e panna, da carezzare come si carezza il dorso di un cavallo». 

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