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“Siamo abituati alle emergenze: il lockdown ha trovato pronte le nostre comunità” fotogallery

La testimonianza di Noemi Carminati per l’Équipe educativa della Comunità con minori Aquilone

“Sono educatrice in due servizi diversi ma ubicati nel medesimo palazzo: in una Comunità per Minori – ove sono accolti bimbi e adolescenti, maschi e femmine, allontanati dalle proprie famiglie per decreto del Tribunale dei Minori – e in un Progetto Autonomia –un appartamento condiviso da alcune ragazze tra i 18 e 21 anni che, dopo la comunità o l’affido, hanno richiesto al Tribunale dei Minori di ricevere un supporto ulteriore per “diventare grandi” e tentare di imparare nel più breve tempo possibile ad essere indipendenti.

Sono realtà complesse e profonde, che spesso la gente non conosce e forse preferisce non vedere.

I ragazzi che vivono fuori famiglia, accolti in varie realtà, sono tantissimi eppure quando racconto del mio lavoro a qualcuno di nuovo non ricevo mai la bella sorpresa di ritrovarmi un interlocutore  consapevole.

D’altronde questo è forse il risultato di più fattori: molti di questi adolescenti non hanno piacere a raccontare la loro condizione atipica e il “mondo fuori” non appare così interessato a soffermarsi su queste storie di fragilità e riscatto. Gli educatori (anzi, le educatrici, visto che siamo tutte donne in equipe tranne due educatori jolly) poi sono una terribile specie di lavoratori: professionisti nel campo del non profit, consapevoli di svolgere un mestiere importantissimo e capillare, senza il quale la società si ritroverebbe in estrema difficoltà, e al contempo poco capaci di chiedere e dare visibilità, aiuti sia per se stessi come lavoratori che per le persone di cui si occupano. Lavoriamo a stretto contatto con un’umanità fragile, richiedente accudimento e al contempo diffidente, animata da rabbie e dolori radicati nei primi anni di vita e da sincero desiderio di riscatto, di affetto. Lavorare per ragazzi così comporta che spesso ti porti a casa un bel pacchetto fatto di ansie, soddisfazioni, rabbia e calore umano. Sono pacchetti che comportano un mix di pensieri contraddittori che vanno dal rimuginare notte e giorno alla ricerca di una nuova strategia pedagogica per dare una svolta positiva ai loro progetti, allo sconforto di dire “ok basta mollo tutto e faccio altro…questa volta per davvero!”.

Questa lunga introduzione è utile solo per dare un’idea del fatto che in Comunità – o nel Progetto Autonomia – non è che non siamo abituati ad emergenze o a quel genere di colpi di scena che se fossimo autori di bestsellers farebbero la nostra fortuna economica. Tutto il contrario!

Abituati alle emergenze, questa emergenza ci ha trovati pronti.

Le due case – Autonomia e Comunità – sono luoghi protetti per definizione. È la caratteristica di base, imprescindibile. E quando è scattato il lock-down noi educatrici abbiamo fatto il contrario della maggior parte della popolazione: siamo andate al lavoro, con turni aumentati. Turni aumentati perché le scuole erano sospese come sospesi erano i rientri di alcuni ragazzi presso le proprie famiglie, sospesi i loro sport, corsi o gli inserimenti lavorativi dei più grandi. Abbiamo fatto il contrario della maggior parte dei lavoratori: siamo restati a stretto contatto con l’Altro. Mascherine, guanti, gel e distanziamento sociale, igienizzazione continua degli spazi comuni che sono il nostro ambiente lavorativo, la loro casa. Ad un certo punto, quando si parlava di Zona Rossa in alcune aree della Provincia, abbiamo iniziato a chiederci se fosse il caso di preparare una valigia per trasferirci in comunità… per non rimanere “tagliati fuori” dai nostri ragazzi.

Siamo parte di quei servizi che non chiudono mai. Le educatrici in comunità ci sono sempre: non fanno differenze le notti, il Natale, la domenica o Ferragosto. Lo smart working è solo per scrivere progetti e relazioni e fare equipe. In questo senso non deve fare differenza una pandemia. Perché la maggior parte dei nostri ragazzi ha solo il nostro lavoro come Casa. Non li puoi lasciare soli. Sia chiaro: non c’è nulla di eroico in queste parole, l’intento non è questo. Ci sono stati giorni in cui ognuna di noi avrebbe voluto essere a casa propria, con la propria famiglia, invece che al lavoro, correndo pure il rischio di contagi. La responsabilità che gravava sulle nostre spalle era un macigno: la consapevolezza di non essere più un’educatrice, ma una cerniera. Una cerniera umana, tra il mondo fuori e il mondo dentro. Una cerniera che deve tenere unite due realtà che non possono entrare in contatto senza una mediazione, una spiegazione, un’accoglienza rappresentata da quella Persona Professionista che è l’educatrice. Educatori alchimisti che devono dosare ingredienti esplosivi in un unico calderone. Trovare la giusta frequenza per far entrare in contatto due mondi delicati ed esplosivi: fuori una pandemia che uccide, dentro un ambiente protetto ma vissuto da persone con un passato difficile. Inutile sigillare i due mondi, la sfida era come conciliare le due sfere, come trovare le metafore più adeguate per spiegare l’assurdità di quei due mesi. Spiegare la situazione e le conseguenze di essa a ragazzi dai 10 ai 20 anni, cercando di non spaventarli ma spronandoli all’essere responsabili. Fare tutto ciò con la consapevolezza di rivolgerci a minori che la guerra ce l’hanno dentro, da quando sono nati. Quindi non potevamo scegliere di usare la narrazione dell’epidemia come guerra, la metafora dei sanitari come eroi in prima linea. Anche perché poi, comprensibilmente, i nostri ragazzi ci hanno chiesto più volte “e allora perché voi continuate a venire a lavorare qui con noi?”.

È stato quindi necessario formulare una sorta di gioco di strategia che si sviluppasse sul lungo periodo ma coltivato giorno dopo giorno. Un lavoro sartoriale come una coperta patchwork che non desse immediate risposte ma che le facesse crescere nell’animo dei ragazzi: amore, svago, mantenimento delle regole, incoraggiamento ad una assunzione di maggiore responsabilità, intraprendenza, ascolto reciproco, ricerca di una speciale quotidianità, umanità condivisa tra operatori e ragazzi, gioco e pianto, espressione della rabbia e del dolore “antico” risvegliato dalle paure di oggi, severità ed accoglienza e così via, potrei andare avanti fino a riempire la pagina. Ogni giorno mixare questi ingredienti e ogni giorno variarne la quantità e le sfumature anche in base allo stato d’animo dei ragazzi.

Ci sono state lunghe giornate di paura i primi due mesi di contagio. E abitare a 1 km dall’ospedale Papa Giovanni non ha aiutato. Sirene notte e giorno, notte e giorno. Gli adolescenti, fantastici ironici, hanno cercato di esorcizzare l’ansia dicendo che ogni sirena era il nuovo inno d’Italia, ripetuto all’infinito in un tempo diluito e, soprattutto, senza un’apparente fine. Una sorta di potente sveglia patriottica, una chiamata al ricordarci – dolorosamente – che siamo tutti uguali in questa situazione e che non puoi distrarti un secondo che torna l’ululato delle ambulanze.

Non è andato tutto liscio. Ogni tanto quella coperta patchwork si è strappata e più volte è stato necessario rammendarla. E anche noi, non siamo sempre invincibili. Ci piace dirlo, si fa di necessità virtù, ma dentro zoppichiamo. Purtroppo la specie lavorativa dell’educatore soffre di questa patologia che induce a dare il meglio quando c’è il peggio e a silenziare la propria fatica interna in attesa di “tempi migliori”. “Andrà tutto bene”, diciamo ai ragazzi, esibendo la fantastica maschera del super eroe che non patisce tentennamenti, stanchezza o frustrazioni. D’altronde, che alternativa possiamo offrire a questi ragazzi? Troppo spesso hanno avuto adulti di riferimento fragili, scostanti, maltrattanti. Oggi hanno bisogno di figure solide, umane, ma solide. Anche quando il mondo fuori è un casino. Quindi eccoci, ci siamo noi educatrici ed educatori, con Giulia, Christian ed Elisa tre (fantastici ed instancabili) “servizi civili” che hanno scelto di stare sempre con noi.

Questi due mesi sono stati speciali per tutti i bergamaschi, per noi – forse – un po’ di più. Vivere con i nostri ragazzi questo periodo è stata un’esperienza difficilmente esprimibile. Riuscire a rendere speciale il diciottesimo di una ragazza che non ha accanto la famiglia né i propri amici, assecondare il desiderio dei più piccoli di affacciarci tutti insieme al terrazzo ed urlare alla notte bergamasca “ANDRA’ TUTTO BENEEEEEEE” e ridere di gusto. La preoccupazione dei più “grandi” che non possono lavorare e che temono che a fine epidemia che non troveranno più posto nella loro precedente occupazione. Sono stati 90 giorni di lezioni on line per otto minorenni. Immaginatevi OTTO minorenni in una casa che devono connettersi contemporaneamente a lezioni differenti. Immaginatevi di ritrovarvi i pomeriggi a fare i compiti con loro sul programma che va dalle divisioni ai polinomi, dall’analisi logica alla letteratura del neorealismo, passando per le proprietà dei metalli, il DNA, le leggi di igiene nei negozi ecc ecc. Questi mesi mi ricorderanno l’aver provato stima per un’adolescente che è da un mese confinata nella propria stanza senza poter uscire perché ha costantemente un filino di febbre da giorni e giorni. Cosa significa avere 17 anni e ritrovarsi in una stanza per un mese, in comunità, dovendosi affidare a educatori e…….. Stima per quei ragazzi che non hanno potuto rientrare dalle loro famiglie. Sanno che potrebbero allontanarsi dalla Comunità, raggiungere i genitori, e che non potrebbero essere riaccolti stante le disposizioni di contenimento del contagio. Sicuramente in questo periodo la tentazione di una fuga si è palesata come una soluzione facile rispetto alla fatica di stare in comunità. In questa situazione sono riusciti a trattenersi e a restare in comunità, hanno fatto una scelta di campo. Non possono più dire “è colpa dei Servizi Sociali se sto in comunità”. Perché la pandemia ha aperto una breccia e una via di fuga, volendo, l’hanno. E se ancora non sono tornati a casa significa una cosa sola: che hanno deciso che a casa non ci possono tornare e che la comunità non è così male. E giù di sensi di colpa, di angoscia consapevole, di frustrazione. Del Progetto Autonomia qualcuno è rientrato a casa. Per la legge sono adulti, ancora in tutela, ma devono assumersi le loro responsabilità progettuali. E come biasimare il loro desiderio di vicinanza e supporto alla famiglia d’origine? Poi c’è chi è rimasto fuori: ragazzi e ragazze che accedono ai nostri interventi con progettualità diurne… il lockdown per loro è doppio, con il fatto che risiedono presso la propria abitazione non possono più frequentare la nostra struttura di giorno, sono sospesi.

Cosa è cambiato dopo questi tre mesi di pandemia? Tutto e niente. La sfida è sempre quella di cercare di volgere a proprio favore le condizioni avverse, qualcosa ci inventeremo. Però mi piacerebbe che il “mondo di fuori” si ricordasse di noi. Quando nel pieno dell’epidemia mi recavo in bicicletta al lavoro, e attraversavo il centro di una città spettrale permettendomi di zigzagare per le vie senza il pericolo di finire investita, mi sentivo sulle spalle la consapevolezza di essere parte di quel corpo di lavoratrici della “prima linea”. Ma sai che novità … lavorare per il benessere di minori da tutelare è sempre un mestiere da trincea, da prima linea. Ed ero contenta perché per la prima volta in 14 anni di lavoro in questo ambito mi sentivo parte di una categoria finalmente apprezzata, identificata come utile e lodata. In realtà era più un’illusione, un auto convincimento per darmi la forza di dare ancora qualche pedalata, lo so, lo so. I miei amici, dopo giorni di smart working via telematica non facevano che ripetermi “beata te che hai un lavoro utile, in questa situazione puoi fare la differenza”.

Ma io vorrei che questa epidemia svelasse che la coperta è troppo corta. Che bisogna orientare l’attenzione su quei silenziosi servizi “prima linea” senza i quali la nostra società arrancherebbe. Che se vogliamo avere una speranza migliore per il futuro allora la società deve volgere lo sguardo sul presente che sono i minori, bambini ed adolescenti. Tutti. Quelli “sereni” e –SOPRATTUTTO – quelli “meno sereni”. E mi piacerebbe che chi scriveva sui giornali “grazie a chi lavora in prima linea” si ricordasse di noi anche per fare una indagine di come sono i contratti di lavoro di queste professioniste, cioè di NOI (spesso con più lauree o master, in continua formazione per essere aggiornati per un lavoro spesso ripagato più dalla relazione e dai risultati con gli ospiti che dallo stipendio a fine mese). Vorrei maggiore attenzione, anche mediatica, per le politiche di tutela dei minori in difficoltà. Per dare voce a questi ragazzi, alle loro storie di riscatto e fatica. Accendere i riflettori sulla vita di migliaia di ragazze e ragazzi che sono il nostro futuro e che hanno bisogno di noi, di tutta la cittadinanza, adesso.

Noi nel frattempo continueremo ad andare avanti giorno dopo giorno, tra una emergenza e una giornata qualunque, per tentare di instillare in questi giovani un briciolo di speranza costruttiva. Un sano desiderio per una vita migliore. Il desiderio per qualcosa di bello, da cercare e costruire. Nonostante nel mondo fuori ci sia un gran casino.”

Noemi Carminati per l’Équipe educativa della Comunità con minori Aquilone

La comunità con minore l’Aquilone è un servizio della cooperativa sociale AEPER che accoglie minori fino ai 17 anni in situazione di allontanamento dalla famiglia su decreto del Tribunale dei Minorenni.

In questo momento vivono in comunità 8 bambini e ragazzi dai 9 ai 18 anni.

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