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Dario Guerini racconta “Le Sante Marie del mare” con una mostra a Quarenghicinquanta

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Un viaggio attraverso le immagini alla scoperta di un antico rito tra fede e tradizione. La nuova mostra fotografica promossa da Quarenghicinquanta, con scatti di Dario Guerini, racconta la storia di uno dei più straordinari raduni dei gitani di tutta Europa che a fine maggio invadono Saintes Maries de la Mer in Provenza per venerare la loro Santa (Sarah-la-Kali) e le Sante Marie patrone del paese (Marie Jacobé e Marie Salomé).

L’esposizione, intitolata “Le sante Marie del mare”, sarà allestita allo spazio fotografia di via Quarenghi, 50 da venerdì 26 maggio a sabato 10 giugno. L’inaugurazione si terrà venerdì 26 maggio alle 19 e vedrà la partecipazione del musicista Guido Bombardieri che in solo proporrà un breve concerto di jazz dal sapore balcanico.
Nei giorni successivi, si potrà visitare mercoledì, giovedì e venerdì dalle 15 alle 19; sabato dalle 10 alle 12.30 e dalle 15 alle 19; domenica solo su appuntamento telefonando al numero 3355382238 oppure al 3389722799.

L’iniziativa rientra nel programma della settima edizione di “The BlankArtDate”, la tre giorni dedicata all’arte contemporanea promossa da The Blank conntemporary art” e quest’anno incentrata sul tema “Sacro / Sagra”.

Gli scatti di Guerini propongono un tuffo affascinante nella folcroristica tradizione religiosa rom, dentro un raduno annuale che richiama in pellegrinaggio gitani da tutto il mondo. Una coinvolgente miscela di sacro e profano, verità e leggenda, mito e ragione, mistero e certezza, fede e idolatria. Contraddizioni profonde e pittoresche che affascinano l’occhio di chi non è abituato alla loro suggestiva e allegra cultura.

Profilo di Dario Guerini
Vive e lavora tra Bergamo e Milano. Dagli anni 80 miscela gli impegni professionali ed accademici nell’area dell’organizzazione e della finanza con la fotografia di ricerca. Inizia con il teatro, poi c’è l’incontro con la musica di ogni latitudine e quello “fatale” con il jazz. Guerini ha indagato a fondo l’universo della musica afro-americana, realizzando numerose pubblicazioni e mostre sia in Italia sia negli Stati Uniti.

“La sua fotografia è diretta, partecipata, consapevole e fortemente comunicativa. Per arrivare a questi risultati è necessario possedere delle forti motivazioni culturali ed avere profonde emozioni soggettive ma controllate da una visione consapevole e mai arbitraria degli eventi” (Mario Cresci).

Con la sua macchina fotografica ha raccontato e racconta comunità zingare, architettura, degrado e disagi delle metropoli: sono numerose le mostre che lo hanno visto protagonista in Italia e all’estero. Nel 1997 si è svolta una sua personale a New York dal titolo “Navigatori senza navigare” in occasione del cinquecentenario dei viaggi di Giovanni Caboto nelle Americhe, promosso dal Console Generale d’Italia, dall’Istituto Italiano di cultura e dalla New York University. Ancora negli Stati Uniti ha esposto nel 2001 a San Francisco, New York, a Orlando e nel 2002 di nuovo a New York.

Altro aspetto privilegiato dalle indagini fotografiche di Guerini è stato il rapporto tra musica e malattia. Per oltre un anno ha scattato immagini all’interno dell’ospedale San Raffaele di Milano, nell’ambito di un progetto scientifico realizzato dallo stesso ospedale e confluito nel 1998 in una mostra fotografica scelta per inaugurare il Dibit – Università Vita-Salute, poi itinerante in diverse città italiane.
Il mondo delle carceri è la dimensione che più lo ha coinvolto nell’ultimo periodo. Ha lavorato per tre anni su un progetto approvato dal Ministero di Grazia e Giustizia a San Vittore a Milano, dove recentemente ha creato un laboratorio di scrittura fotografica con un gruppo di detenuti del Centro Clinico.

Tra le sue pubblicazioni va segnalato “Il Milanese”, un’opera in sei volumi sulla città e sulla provincia di Milano. Numerose foto di Dario Guerini sono state acquistate da collezioni private e da istituzioni operanti nel mondo della cultura, della formazione e dell’impresa.

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“Les Saintes Maries de la mer”
Lo scenario che si apre davanti agli occhi di colui che arriva in questa terra, può far sentire spaesato. Chitarre che suonano il flamenco e donne che ballano, miriade di ristoranti che offrono a buon prezzo un piatto di paella di mare e una grande arena lungo la passeggiata a mare. In realtà non siamo in Spagna, bensì nel sud della Francia, circondati da una natura rigogliosa. Il nome del paese, che risale al 1838, in seguito alla ricostruzione ultima della chiesa, è legato a due donne. La leggenda narra che durante le persecuzioni cristiane, un piccolo gruppo di persone, fra cui Santa Maria Jacoba e Santa Maria Salomè, fuggì grazie ad una piccola imbarcazione a vele e senza remi, guidata esclusivamente dal volere di Dio. L’imbarcazione fu condotta dalla Terra Santa, proprio sulle coste della Camargue. Dopo il loro arrivo, le due Marie rimasero su queste terre per predicare il cristianesimo. Da loro il nome Les Saintes Maries de la mer.

La storia parla anche di una terza donna, che poi rimase legata per l’intera vita alle Marie, diventandone la serva. Il suo nome era Sara, scura di carnagione, molto giovane e dai lineamenti dolci. Riguardo alla sua esistenza ci sono più versioni dei fatti. La prima ipotesi la vede profuga, con le altre donne, sulla zattera guidata da Dio; l’altra, porta avanti l’idea che Sara fosse già su queste terre quando le altre vi arrivarono.

La reale esistenza delle sante fu dimostrata, in seguito, da scavi effettuati in queste terre, in seguito ai quali furono ritrovati dei corpi di donna posti a croce, proprio nel punto in cui sorgeva l’altare maggiore della prima chiesa del villaggio. Il ritrovamento dei corpi sepolti in un punto in cui in passato sorgeva un luogo di culto, fu un grande indizio al fine di capire l’importanza delle due donne.

Nella tradizione religiosa era solito svolgere delle Sante Messe proprio nel luogo in cui si trovavano sepolte delle Sante Reliquie. Dopo questa scoperta, il piccolo paese divenne luogo di pellegrinaggio da tutto il mondo. La processione nei primi anni si svolgeva solo in onore delle due Marie, ma dal 1935 fu approvata della Chiesa e poi effettuata anche in onore di Sara. Il merito di questo riconoscimento fu del Marchese Folco de Baroncelli. Lui, nobile italiano esiliato ad Avignone con la famiglia, s’innamorò a tal punto della Camargue da abbandonare la vita nobile per diventare un buttero. Portò avanti le tradizioni di questa terra, legò fin da subito con butteri, guardiani e zingari, abitanti già insediati. Così nasce il pellegrinaggio, che da anni conta tre giorni di feste e cerimonie. Durante questo arco di tempo, il paese di Les Santes Maries de la mer si riempie di gente, che arriva da tutto il mondo per assistere alla processione che dalla piazza centrale giunge fino in mare. Da trent’anni ormai, fra i numerosi pellegrini che arrivano in questa terra francese, si contano migliaia di gitani o zingari, come vengono chiamati con uso improprio del termine. Questa mescolanza risale solo al 1953. In passato loro non erano ammessi alla processione poiché la chiesa non li riconosceva parte integrante dei fedeli. Solo dopo le persecuzioni naziste, di cui i gitani furono grandi vittime, la chiesa li ha riconosciuti come tali.

La loro presenza, oltre che a mobilitare il villaggio, crea un’atmosfera unica. In ogni angolo di strada, si possono udire canti popolari gitani, accompagnati dal suono duro e ritmato delle chitarre. Le donne indossano vestiti sgargianti e larghi, dalle balze in fondo, spesso a pois neri su uno sfondo colorato. Tanti anche i bambini che scorrazzano indisturbati per le strade. Questi giorni di festa, oggi divenuti anche motivo di viaggio per semplici turisti curiosi, avvengono in due momenti precisi dell’anno. Il primo, il 24, 25 e 26 maggio; mentre il secondo si ripete a metà ottobre con qualche piccola differenza. Il più conosciuto e il più colorato, rimane in ogni caso il primo, grazie anche alla buona stagione. Già qualche giorno prima dell’inizio dei festeggiamenti, infatti, il paese si veste a festa. Gli ospiti più attesi sono i gitani. Il loro arrivo riempie letteralmente ogni spazio vuoto del paese. Vi giungono con i loro caravan, formando così dei piccoli agglomerati room, ovunque ci sia posto. Lo scopo del loro pellegrinaggio è quello di commemorare la loro santa protettrice, “Sara la Kalì”, che nella loro lingua significa sia zingara sia nera.

In realtà, il paese è ben preparato al loro arrivo in massa. Ogni anno, infatti, un campeggio intero, quello più vicino al centro, gli viene riservato interamente. Il paese si popola così, fra gitani, turisti, pellegrini e pochi francesi (che per la maggioranza lasciano il paese durante i tre giorni). La festa ha inizio la mattina del 24, con la messa che apre il periodo di processione. Il primo rintocco delle campane richiama il popolo a radunarsi in chiesa e nei dintorni della piazza. La gente solitamente è così numerosa che da qualche anno è stato installato un sistema d’amplificazione esterna in modo da seguire la celebrazione anche stando in strada, o addirittura sul tetto della chiesa. All’interno di questa la luce soffusa delle sole candele crea un’aria di religioso silenzio, mentre all’esterno, fra una massa di persone, i guardiani a cavallo si sistemano sulla piazza.

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Il fulcro attorno al quale si sviluppa la cerimonia è Notre-Dame-de-la-Mer, Nostra Signora del Mare, una imponente chiesa-fortezza che fu costruita ai tempi di Carlo Magno probabilmente sopra una precedente cappella merovingia. Chiamarla fortezza non è un eufemismo: durante le frequenti incursioni dei pirati saraceni, gli abitanti del paese si riparavano con il loro bestiame tra le sue solide mura e potevano restare al sicuro per lungo tempo grazie anche alla presenza di un pozzo le cui acque sono tuttora considerate miracolose. L’edificio, costituito da un’unica navata, è oscuro e cavernoso.

Durante la messa vengono esposte ai piedi dei gradini che portano all’altare le statue delle due Marie per essere venerate, accarezzate e abbracciate. Una breve rampa di scale scende per condurre nella minuscola oscura cripta, in cui le fiammelle di centinaia di candele illuminano a malapena la figura di una fanciulla dalla pelle color ebano, avvolta in mantelli riccamente ricamati e adorna di gioielli. È Sara la Kali, Sara la Nera, santa Sara, la misteriosa dea-patrona degli zingari, la cui santità non è mai stata riconosciuta dalla Chiesa cattolica. La sua immagine è circondata da numerosi ex-voto, ricordi, preghiere e doni lasciati dai gitani provenienti da mezza Europa.Le candele e i lumini sono sempre accesi e il calore è talmente forte che le candele sono piegate e contorte come rami di una albero. Ci vuole un po’ di tempo per abituarsi al caldo opprimente della cripta, alla sensazione di claustrofobia e ad una sorta di stordimento che, con molta probabilità, è dovuto alla particolare energia emessa dalla sorgente sotterranea che alimenta il pozzo. Non a torto gli zingari chiamano questo spazio angusto il “ventre della madre”.

Le sculture sono molto diverse nel loro genere: quella di Sara è coperta di mantelli impreziositi, da cui esce solo lo scuro viso, dallo sguardo dolce. Quella delle due Marie vede le due sante all’interno di una barca, che raffigura e simboleggia quella zattera che secondo la storia e la leggenda, fu condotta da Dio fino alla Camargue. Le statue, una volta scese, vengono poste sull’altare maggiore, davanti al quale viene celebrata la messa. In questa prima giornata però il rito sarà dedicato esclusivamente a Sara.

La vera parte saliente della festa è la processione che inizia subito dopo la messa, aperta dai guardiani a cavallo che si fanno spazio fra la folla. I gitani dietro seguiranno a piedi. Durante il percorso i bambini, per la mano ad altri bambini o ai genitori, cantano a squarcia gola allegramente, mentre qualche adulto accompagna il ritmo con il proprio strumento. Dalla chitarra al violino, passando attraverso l’uso delle stesse mani come piccole percussioni. I vari canti vengono intervallati solo da alcune urla “Evviva Les Santes Maries, evviva Sara”. Solo quattro uomini gitani avranno l’onore di poter portare sulle spalle la barella di legno, con la statua di Sara, lungo tutta la processione fino al mare. Arrivati in spiaggia, vi è l’entrata in acqua. A causa della temperatura e dell’abbigliamento, il ritmo di marcia rallenta. Coloro che hanno più problemi sono i fotografi e le donne, gitane e non. Molti sono i turisti che, con loro, entrano in acqua. In pochi secondi il mare si popola di gente, mentre tanti rimangono in spiaggia. Ecco il momento saliente che tutti aspettiamo: la barella di Sara verrà posta sul filo dell’acqua così a celebrare la sua unione a questa terra, per poi essere riportata in chiesa in spalla ai quattro uomini. A seguire, la messa fatta di preghiere in suo onore, a conclusione del rito della giornata, ma la serata e i canti si protrarranno fino a tarda notte. I gitani, con i loro ritmi flamenchi, rimangono in paese a suonare e a ballare instancabilmente e il paese s’illumina con le lucine colorate dei ristoranti.

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Il giorno seguente viene ripresentata tutta la cerimonia con l’unico cambiamento, che in questa circostanza verranno condotte in mare le statue delle due Marie e non quella di Sara. Ciò provoca un’affluenza ridotta al pellegrinaggio, poiché nonostante i gitani siano ancora in paese, non accorrono numerosi al rito. La loro protettrice è solo Sara.

Il terzo ed ultimo giorno è particolare e non vede l’evolversi del rito dei giorni precedenti. Ciò lo rende diverso ma non per questo meno festoso. Durante la mattinata sfilano, infatti, i guardiani a cavallo, seguiti dai tori che verranno scortati fino all’arena del paese. In questa regione, il toro, insieme al cavallo e al fenicottero rosa, è un forte simbolo. All’interno dell’arena verranno svolti giochi e spettacoli che dureranno tutto il pomeriggio. Fra l’arrivo dei guardiani e l’inizio dei giochi e degli spettacoli, però, avviene una cerimonia alla tomba del Marchese di Baroncelli. A lui i guardiani devono molto, perché una sua opera fu quella di fondare la “Nation Guardiane” (Nazione dei Butteri) con lo scopo di difendere la Camargue e le sue tradizioni semplici, legate alla natura e agli animali. Furono gli zingari e i guardiani, infatti, a organizzare il funerale del Marchese. Si racconta anche che oltre trecento tori seguirono passo a passo la processione funebre dell’uomo. Durante questa terza giornata di festa si commemorano lui e le opere che ha compiuto in questa terra alla quale lui si legò fin dall’inizio della sua permanenza. La fine della festa coincide con il calar del sole quando i guardiani riportano fuori città i tori. È molto bella l’immagine di questi uomini che si allontanano, insieme agli animali, dal luogo di festa. Vedendoli di spalle mentre si allontanano, si è pervasi da un miscuglio di sensazioni. Come se il tramonto fosse un grande sipario che si sta chiudendo.

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