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3 giugno 1963 - 3 giugno 2023

Sessant’anni fa ci lasciava Giovanni XXIII: l’attualità dei suoi insegnamenti sulla pace

Daniele Rocchetti, presidente delle Acli provincia di Bergamo, ripercorre il magistero del pontefice bergamasco

“Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque il diritto della persona umana e non solo quelli della Chiesa cattolica. Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.

Forse per comprendere la vicenda umana e spirituale di Angelo Giuseppe Roncalli, papa Giovanni XXIII, morto il 3 giugno di sessant’anni fa, bisognerebbe partire da queste parole consegnate una decina di giorni prima della scomparsa al suo segretario, monsignor Loris Capovilla. Perché Roncalli ha cercato per tutta la vita, dentro il susseguirsi di incarichi – segretario del vescovo di Bergamo monsignor Radini Tedeschi, cappellano militare, visitatore apostolico in Bulgaria, delegato apostolico in Turchia, nunzio a Parigi, Patriarca di Venezia, pontefice – non ha fatto altro che cercare di capire come potesse il Vangelo essere ancora “buona notizia” per le donne e gli uomini del tempo.

Usando categorie sempre imperfette quando si parla di vicende di Chiesa, è capitato che un “conservatore” (perché così appariva ai più) che aveva come bussola il Vangelo è stato capace di attraversare mondi, anche i più disparati tra loro – la Turchia laicizzata da Ataturk, la Francia di De Gaulle desiderosa di rivincita sui vescovi petainisti, la Curia romana e i suoi molti imbrigliamenti – conservando rispetto e stima. Non facciamoci deviare dall’immagine caramellata del “papa buono”.

Angelo Giuseppe Roncalli – scelto per il soglio pontificio, dopo la morte di Pio XII, perché potesse essere, per l’età avanzata, un papa “di transizione” – fu capace – in nome della comprensione del Vangelo, più che dell’osservanza del canone – di avviare (quando già era cosciente della malattia) con determinazione il Concilio Vaticano II. E di portarlo su rive che neanche aveva immaginato Uno “spartiacque” netto della Chiesa contemporanea che da allora cerca di lasciarsi alle spalla la sindrome d’assedio che la tormentava da almeno un secolo e mezzo, di rimettere con coraggio al centro parole come universalità della Chiesa, aggiornamento, collegialità, dialogo, ecumenismo, fraternità e…“santa libertà dei figli di Dio”, come avrebbe detto lo stesso Papa Giovanni l’8 dicembre 1962 alla cerimonia conclusiva del primo periodo, cui parteciparono oltre 2.500 Padri conciliari.

Il papa bergamasco fu capace di scrivere – cinquantatré giorni prima della sua morte – un’enciclica, la Pacem in Terris, che mette sotto processo, e definitivamente supera, il concetto di “guerra giusta” o di “guerra difensiva”. Idea secolare del magistero pontificio, legittimata, sia pure con la presenza di alcune precise delimitazioni riguardanti tanto le condizioni relative all’ingresso in guerra quanto le modalità del suo concreto esercizio – per sostituirlo con un giudizio severo di condanna nei confronti di ogni tipologia di guerra.

Al n.67 del testo (che il papa “buono” non volle far esaminare dai teologi di corte), c’è un invito a superare il concetto della guerra come “strumento di giustizia” tra i popoli. “Alienum est a ratione”, dice il testo latino. E cioè “è irragionevole e folle” (da “fuori di testa”, insomma) pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia. Per la prima volta viene resa ufficiale la proclamazione della immoralità e assurdità della guerra, e quindi obbligati a trovare altre vie per ristabilire diritto e giustizia violati. Giovanni XXIII chiede alla chiesa cattolica di lasciarsi alle spalle la dottrina – elaborata dal quinto secolo in poi – della “guerra giusta” per concentrarsi sulle strade della pace.

L’enciclica precisa poi che bisogna imparare a distinguere le “false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, da movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione”. Distinzione per noi evidente, un po’ meno agli inizi degli anni Sessanta in piena guerra fredda, tra blocchi contrapposti.

Un grande monaco benedettino, dom Ghislaine Lafont, invitato dieci anni fa a Sotto il Monte per celebrare il cinquantesimo della morte di Papa Giovanni ebbe a dire così: “Alla fine del mese di maggio del 1963 mi trovavo in un ospedale nei dintorni di Parigi, dove l’abate mi aveva inviato per sostituire per qualche giorno il cappellano, anche lui benedettino, assente per non so quale ragione. Erano gli ultimi giorni di vita di Papa Giovanni. Rimasi colpito dal clima del tutto eccezionale che si respirava in ospedale: nelle camere dei pazienti, negli uffici dei medici, degli infermieri e del personale di servizio, i transistor (una delle innovazioni tecnologiche del momento!) erano accesi per raccogliere le ultime notizie del Papa e per non perdere il contatto con lui durante gli ultimi momenti della sua vita. Il tempo e lo spazio sembravano come sospesi, concentrati su quella stanza del Vaticano nella quale il Papa stava morendo. Si capiva che il doloroso evento, atteso e ora vissuto, era qualcosa di personale, che riguardava ciascuno: donna o uomo, credente o indifferente”. Quando papa Giovanni muore, alle 19,49 del 3 giugno, piazza San Pietro è colma di donne e uomini, molti di loro piangono. Lo salutano a nome di tutti le campane di San Pietro e, dicono le cronache, anche le rondini che volano nel tramonto della sera tra gli apostoli sulla Basilica.

Ecco, l’eredità di questo uomo, nato in una famiglia di contadini il 25 novembre del 1881, è proprio questa: mostrare l’umanità del Vangelo, capace di parlare a chiunque, anche ai tanti fuori dal recinto ecclesiale. Quante volte mi è capitato di incontrare persone orgogliose della loro granitica fede comunista e capaci di tenere nel portafoglio un’immagine di papa Giovanni!

Anni fa, mi capitò di intervistare Hans Kung, il discusso teologo tedesco, perito conciliare al Vaticano II, per decenni uomo di punta della teologia tedesca, autore di una serie di testi che, agli inizi degli anni settanta, avviarono, a volte polemicamente, una riflessione all’interno della comunità cristiana.
Quando gli chiesi un ricordo del papa buono mi rispose così: “A mio avviso, Giovanni XXIII è stato il papa più significativo del ventesimo secolo, il solo che il popolo cattolico aveva già da tempo beatificato senza bisogno delle prove dei miracoli. Con lui si è inaugurata una nuova stagione nella storia della chiesa cattolica.

È Giovanni XXIII, nonostante la forte resistenza della curia romana, ad aprire la chiesa, ancora arroccata nel paradigma medievale controriformistico e anti-moderno, verso la via dell’aggiornamento, verso una proclamazione del Vangelo al passo con i tempi, verso una comprensione con le altre chiese cristiane, con l’ebraismo e con le altre religioni mondiali, verso un contatto con i paesi dell’Est, verso una giustizia sociale internazionale (pensi all’enciclica Mater et Magistra del 1961) e verso l’apertura al mondo moderno e all’affermazioni dei diritti umani (la Pacem in Terris del 1963). Con la sua condotta collegiale, papa Roncalli ha rafforzato il ruolo dei vescovi manifestando una nuova percezione pastorale dell’ufficio papale”.

Daniele Rocchetti, presidente Acli Bergamo

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