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Ballando di architettura (una guida all’ascolto)

Ora suonerò un pezzo difficile

Gambale è in vena di chiacchierare. Addirittura canta, in un pezzo che parla “Della gente che promettono ma non mantengono” (sic!), e noi gli vogliamo bene, perché questo alieno atterrato al Druso è un italiano vero come gli spaghetti al dente e un partigiano come presidente

“La fusion è complicata!” (Elio e le storie tese, 1999).

Questo è uno dei mantra che da sempre perseguita uno dei sottogeneri del jazz, nato agli albori degli Anni Settanta e figlio di album ormai storici come In a Silent Way e Bitches Brew di Miles Davis ed Emergency! dei Tony Williams Lifetime.

Un altro luogo comune sulla fusion (o jazz-rock che dir si voglia) è che si tratti di musica suonata da gente senz’anima per ascoltatori sfigati, interessati più alla tecnica che al feeling.
Sciocchezze, la fusion, quella bella, è musica ottima, suonata bene, da gente con un cuore grande, che ci crede e si è fatta anni di ascolti, studi, calli sulle dita, e che non smette mai di stupirsi e di stupire.

Lo dimostra la serata dello scorso 29 marzo al Druso di Ranica (Bergamo) in cui il pubblico è accorso in massa per assistere alla prima esibizione in terra orobica dello straordinario Frank Gambale. La serata è iniziata con Marco Pasinetti, chitarrista ormai consolidato nell’attuale scena blues e jazz, accompagnato, per l’occasione, da Giuliano Dalbosco al contrabbasso e Davide Bussoleni alla batteria.

Il trio così composto ha presentato pezzi originali di Pasinetti, tratti dall’ultimo album Sorry We Missed You, oltre a brani di Bill Frisell e Thelonious Monk, suonati in modo elegante e confidenziale, con ampi spazi tra le note e con spiccata predilezione, perlomeno questa sera, per i ritmi lenti perché, come ossequiosamente dichiarato dal leader al microfono “Siccome non vogliamo competere con i maestri, questa sera abbiamo deciso di eseguire solo ballad”.

Ma a Marco Pasinetti piace prendersi in giro e a noi piace il suo modo di suonare out e l’abilità del suo trio nel lavorare per sottrazione, contrariamente alle tendenze moderne.
Giusto il tempo di una birra alla spina ed è già il momento della Frank Gambale All Star Band nelle cui fila militano, oltre al funambolo italo-australiano, il francese Hadrien Feraud, giovane bassista elettrico già impegnato con Chick Corea e John McLaughlin, l’ungherese Gergo Borlai, batterista muscolare e ricercato, ed il raffinatissimo Jerry Leonide, proveniente dalle Mauritius, alle tastiere.

Il quartetto parte soft, Gambale è all’elettrica, ma con un suono quasi per nulla saturo – poi confesserà che i primi due brani erano per chitarra acustica, ma il bagaglio non era atterrato in tempo – la band lo segue fedele senza guizzi o effetti speciali. Sembra di assistere a una serata di smooth jazz, tanto in voga negli anni ottanta, sulle note di Lee Ritenour, Larry Carlton o Dave Grusin.
Se stasera l’asso dello sweep picking sembra – “sembra” sottolineato tre volte – volersi risparmiare alle sei corde, tuttavia non lesina affatto negli aneddoti tra un pezzo e l’altro, tutti raccontati in un italiano amabilmente maccheronico.

Racconta dei genitori di origini napoletane che gli dicevano “Con la musica non mangi mai” e a noi sembra di vederlo, giovane, magro, coi capelli scuri, lunghi e sottili, che prende e parte per Hollywood, senza un soldo in tasca, come ogni vero artista che si rispetti, alla ricerca del sogno americano.
E lì vive per quarant’anni, facendosi un nome, prima nel circuito locale dei turnisti, quelli che in assenza di ingaggi suonano (ieri come oggi) al glorioso Baked Potato, poi come sideman di famosi ensemble impegnati nell’agognata routine di dischi, tour, clinics e masterclass in giro per il mondo.

Insomma, questa sera Gambale è in vena di chiacchierare. Addirittura canta, in un pezzo che parla “Della gente che promettono ma non mantengono” (sic!), e noi gli vogliamo bene, perché questo alieno atterrato al Druso è un italiano vero come gli spaghetti al dente e un partigiano come presidente.

Finché0, d’un tratto, quando tutto sembra scritto, quando il pubblico è ormai rapito da quest’atmosfera losangelina un po’ glitterata e decadente, ecco che il killer sferra il colpo. Un colpo duplice, nel mio caso, perché prima NON suona il mio pezzo preferito, Little Charmer, ma si diverte a riarmonizzarlo in una versione nuova pertinentemente intitolata Big Charmer, poi ci stende e ci manda al tappeto con una delle sua ballad più strazianti, Passages, un brano che, riascoltato dal vivo oggi, suona come il sentito omaggio a un altro eroe, Jeff Beck.
A questo punto io sono in pezzi, sbriciolato. Ma Frank ne ha ancora e a lungo. Suona, ride, scherza, diverte e si diverte. “Voi siete l’intelligentia. Questa musica non è popolare, è difficile da apprezzare”.

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