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Cinema

La recensione

Armageddon Time, uno sguardo disincantato sul conservatorismo nell’America di Regan

Il ricordo autobiografico di James Gray, che, nel suo coming of age semplice ma amaro, ritrova le disuguaglianze intrinseche in una società che modella il proprio futuro sulla prevaricazione nei confronti dell’altro

Titolo: Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse

Titolo originale: Armageddon Time

Regia: James Gray

Paese di produzione/anno/durata: Stati Uniti, 2022, 114 min.

Interpreti: Anne Hathaway, Jeremy Strong, Banks Repeta, Jaylin Webb, Anthony Hopkins, Ryan Sell, Andrew Polk, Tovah Feldshuh, John Diehl, Jessica Chastain, Jacob MacKinnon, Marcia Jean Kurtz, Domenick Lombardozzi, Dane West

Programmazione: Capitol Bergamo, UCI Cinemas Orio, UCI Cinemas Curno, Arcadia Stezzano, Treviglio Anteo spazioCinema

“Se lasciamo che l’America sia un’altra Sodoma e Gomorra, forse potremmo essere la generazione che vedrà l’Armageddon”. Parole di Ronald Reagan, durante la campagna elettorale del 1980 che, alle elezioni presidenziali, lo vedrà vincitore contro Jimmy Carter. Parole che risuonano nella casa di Paul Graff, ragazzino protagonista di Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse, film diretto da James Gray, in sala da giovedì 23 marzo.

Paul (interpretato da Banks Repeta) è un ragazzino di origine ebrea che vive con la propria famiglia nel Queens, il più grande distretto di New York, con una forte componente di immigrati. Cercando di attirare l’attenzione della classe disegnando la caricatura di un professore, stringe amicizia con l’afroamericano Johnny Davis (Jaylin Webb). Tra i due si crea un solido legame, fino a quando non verranno scoperti a fumare uno spinello nei bagni della scuola: evento che diventa spartiacque, “Armageddon” nei diversi destini di Paul e Johnny.

Il titolo del film, che riprende le parole pronunciate da Reagan, ha in realtà una doppia valenza. L’ispirazione per la scelta viene al regista da una canzone reggae, chiamata Armagidion Time, rifatta dai The Clash nel 1979. La minaccia di una guerra nucleare che diventa, in tono minore, un evento che segna la vita di Paul. I genitori infatti, dopo le diverse esuberanze del ragazzo, decidono di iscriverlo alla prestigiosa Kew-Forest School, nata per formare i possibili rappresentanti di una futura classe dirigente. Finanziatore dell’istituto è Fred Trump (John Diehl, che interpreta il padre del futuro presidente degli Stati Uniti) che, insieme alla figlia Maryanne (Jessica Chastain) accoglieranno gli studenti con una lezione sull’impegno, che non nasconde i principi cardine dell’affermazione personale e del successo. Simboli di un capitalismo basato sulla supremazia dell’io ai quali fa da ideale contraltare la figura di Aaron Graff (uno splendido Anthony Hopkins), nonno del protagonista.

Immigrato in America dall’est Europa, Aaron è un ebreo ucraino (in fuga con la madre) che riesce a costruirsi una nuova vita a New York. Consapevole della disparità di atteggiamento nei confronti degli immigrati, desidera per la propria famiglia il meglio possibile verso un reale riscatto sociale (sarà lui a spingere Paul verso l’iscrizione alla Kew-Forset), ma non dimentica l’importanza di battersi contro le ingiustizie e a favore del rispetto verso il prossimo. Quando Paul parlerà al nonno dei discorsi razzisti dei nuovi compagni di scuola, sarà proprio Aaron ad invitarlo all’azione, a non rimanere indifferente (“E tu che fai quando capita?” – “Io non faccio niente, è ovvio” – “E ti credi furbo?”).

In Armageddon Time, James Gray mostra un volto crudele, ma realistico dell’America ad inizio anni Ottanta, quando le disparità sociali iniziano ad essere più evidenti ed i discorsi rivolti alla collettività lasceranno spazio all’affermazione personale. Disparità che si evidenziano anche tra scuola privata e scuola pubblica e che si manifestano nel futuro già segnato di Johnny, giovane afroamericano senza famiglia (vive solo con l’anziana nonna), al quale vengono da subito tarpate le ali e qualsiasi speranza nel futuro, indicato già dalla nascita come solo portatore dei mali della società. Opposto destino per Paul, membro di una famiglia ben inserita nella società, pur con le sue difficoltà. La madre Esther (Anne Hathaway), rappresentante dei genitori, è un porto sicuro per il ragazzo, mentre con il padre Irving (Jeremy Strong) ed il suo perbenismo borghese il rapporto sarà sempre complicato, sottolineato dalla distanza formale che li vede sempre agli opposti delle inquadrature scelte dal regista.

Gray mette in scena così una sua versione ostinata ed autobiografica dell’Antoine Doinel di Truffaut, una sorta di I 400 colpi aggiornata ai giorni nostri. Tra memoria storica e nostalgia, la sua infanzia viene mostrata attraverso un coming of age semplice e nitido, mai nostalgico, che dall’immaginazione e dall’inclinazione artistica (l’impressionante memoria fotografica nel riprodurre un Kandiskij) arriva al momento della crescita personale attraverso l’assunzione di responsabilità. Una responsabilità che sembra coincidere però con un modello trumpiano, dove le menzogne prevaricano su una reale consapevolezza dei propri obblighi. Uno sguardo lucido e disincantato che sembra avvicinarsi pericolosamente alla profezia reaganiana.

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