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L’intervista

“Il Giorno della Memoria è necessario ma non basta: si deve riflettere su quanto accaduto”

Lo storico Mario Pelliccioli invita a fare di più per comprendere il significato di questa ricorrenza

Il 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria, per ricordare la Shoah. Nelle ultime settimane le cronache riferiscono della posa delle pietre d’inciampo in città e in diversi paesi della provincia di Bergamo. Si tratta di una piccola targa in ottone a scopo commemorativo posta su un sanpietrino, che l’artista berlinese Gunther Demning installa in tutta Europa davanti alle case in cui vivevano i cittadini deportati nei lager.

L’iniziativa, che ormai è diffusa in 17 Paesi europei, è cominciata a Colonia nel 1995 e finora ha portato all’installazione di oltre 75mila pietre. Fra queste vi sono anche quelle poste in Italia, per esempio a Roma, Genova, Livorno e Prato. Più precisamente, sul territorio italiano al momento ce ne sono oltre 1.300 e in provincia di Bergamo nei prossimi giorni diventeranno più di venti, una decina delle quali nel capoluogo.

Abbiamo intervistato lo storico Mario Pelliccioli, collaboratore dell’Anpi e delle Acli, per saperne di più.

Che significato hanno le pietre d’inciampo?

Sottolineano la complessità della deportazione, ma anche il legame di tutte le nostre comunità con la deportazione e lo sterminio. Inoltre, ci richiamano alle nostre responsabilità e conservano il nome di una persona scomparsa. Le vittime della Shoah, in questo modo, ritornano simbolicamente alla vita che avevano prima del loro assassinio. L’artista ha spiegato che un individuo viene dimenticato quando viene dimenticato il suo nome, per questo è importante che compaia sulla targa. Una delle prime operazioni che venivano effettuate all’ingresso dei lager era l’assegnazione di un numero che sostituiva il nome: da quel momento il deportato era solamente un pezzo, un numero. In quest’ottica, le pietre d’inciampo ci fanno riflettere sulla complessità del fenomeno della deportazione.

Ci spieghi

Il giorno della memoria ricorda non solo gli ebrei ma tutte le vittime dei lager, quindi anche i rom, i sinti, gli oppositori del regime fascista e nazista, gli operai catturati dopo gli scioperi nell’area milanese nella primavera del ’44, i gay, le lesbiche e i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943. Complessivamente si tratta di circa 12 milioni di persone. Le pietre d’inciampo e la ricorrenza del giorno della Memoria ci invitano a chiederci come sia stato possibile tutto ciò. Cercherò di rispondere partendo dalla constatazione che i lager non sono un’invenzione di Hitler o un’invenzione tedesca: i Paesi europei in particolare Francia, Germania, Inghilterra e Italia li avevano usati nella crudele e disumana conquista dell’Africa nell’Ottocento. Per quanto riguarda le teorie razziali, poi, sappiamo che pseudo-teorie scientifiche sulla classificazione delle razze e sulla supremazia di quella bianca erano diffuse da molto tempo, permeavano la nostra cultura e anche questo spiega come si è arrivati all’emanazione delle leggi razziali negli anni trenta.

Potrebbe approfondire questo aspetto?

Le leggi razziali in Italia sono state varate nel 1938 e furono volute con convinzione dal fascismo, come risultato di una lunga preparazione durata diversi anni. Non sono leggi fatte per imitare quelle tedesche, rafforzare l’alleanza con Hitler o essere consenzienti al nazismo. Non sono nemmeno il frutto di una mente impazzita. Nel 1938 gli Italiani avevano già dato prova del loro razzismo: basta ricordare la guerra in Libia nel 1911, la guerra in Etiopia nel 1935 e l’occupazione di Jugoslavia, Albania e Grecia.

Come si comportarono gli Italiani e i Bergamaschi?

Adottarono tre comportamenti. Il primo è la collaborazione con i carnefici, il secondo è l’opposizione nei loro confronti e il terzo è l’indifferenza. Pensiamo, per esempio, a quanto accadde alla famiglia Levi ad Ambivere. Molto ben voluta, era composta dal dottor Guido, il farmacista del paese, sua moglie Emma Bianca Tedeschi e le loro tre figlie Nora, Laura e Clara, tutte e tre nate ad Ambivere. Con lo scoppio della guerra il capofamiglia si fece raggiungere dalle sue due sorelle, che abitavano in un paese vicino e lavoravano come insegnanti, e dalla cognata. Guido Levi aderì al partito fascista e nel 1938 si convertì alla religione cattolica insieme ai membri della sua famiglia. Quando vennero varate le leggi razziali, sentì che il pericolo era vicino. Una malattia purtroppo lo colpì e lo portò alla morte senza aver preparato niente per i suoi familiari.

Cosa accadde?

Morì nell’ottobre 1943 e le donne della famiglia, nonostante le varie offerte d’aiuto e gli inviti alla fuga da parte di molti amici, rifiutarono di abbandonare la loro casa. Il 1° dicembre vennero arrestate dai carabinieri e condotte al carcere di Sant’Agata a Bergamo. La denuncia partì da un cittadino bergamasco, un volenteroso carnefice. Il 23 gennaio 1944 vennero trasferite nel campo di Fossoli e da qui il 5 aprile 1944 furono deportate ad Auschwitz. Si salvò solamente Laura, che venne liberata dai russi il 27 gennaio 1945. Ritornò dal lager distrutta e non ritrovò neppure le sue proprietà, i suoi beni, la farmacia, l’abitazione e tutto quello che vi era contenuto. Il 25 febbraio 1944 con un decreto i beni erano già stati confiscati. In una testimonianza raccolta da Silvio Cavati, ricercatore bergamasco, si racconta come questo arresto è avvenuto.

Cioè?

Ha riferito che l’arresto avvenne al mattino. Arrivò una camionetta con il maresciallo dei carabinieri di Ponte San Pietro per prelevare le donne della famiglia Levi. Un testimone ricorda di essersi recato a casa Levi assieme a suo padre per vedere cosa stesse succedendo. Ha riferito che suo papà si inginocchiò davanti al maresciallo per supplicarlo di lasciarle andare, ma lui gli rispose di non preoccuparsi. Lo rassicurò dicendo che si trattava solamente della necessità di fare un interrogatorio. Una delle sorelle, Clara, in quel momento non era in casa: aveva 13 o 14 anni e si trovava a scuola a Bergamo. L’aspettarono alla stazione e portarono via tutti i componenti della famiglia. La crudeltà di questa cattura prelude alla bestialità della deportazione; ma anche la vicenda del sequestro dei beni di proprietà della famiglia Levi è significativa. Il 25 febbraio 1944 il capo della provincia procedette alla confisca e tre giorni dopo venne disposta l’assegnazione dei beni rimanenti, nonostante la pratica non fosse ancora definita. Si pensava di trovare traccia di questo avvenimento nel diario del vescovo Adriano Bernareggi, che conosceva la situazione della famiglia Levi e aveva battezzato i suoi membri, ma non è così. Gli episodi di questo tipo, comunque, sono molti e a volte ancor più disumani.

In che senso?

Ernesto Frigerio, partigiano, operaio e membro del comitato di agitazione della Dalmine, che diventerà il comandante della quarta Brigata Giustizia e Libertà – Divisione Orobica, rilasciò una testimonianza, raccolta nel 1977 da Angelo Bendotti e Giuliana Bertacchi. Raccontò che, ancor prima di assumere incarichi, si offrì volontariamente per accompagnare un amico antifascista incaricato di portare al confine svizzero – in Valle Vigezzo – una famiglia di ebrei e quattro prigionieri: un austriaco, un inglese e due ciprioti; si doveva accompagnarli in Val Vigezzo e poi al confine. Arrivati in treno alla stazione di Domodossola, la trovano presidiata dai tedeschi, che chiedono a tutti i documenti; riescono a sfuggire al controllo seguendo le indicazioni di un giovane barista. Riprendono il treno e raggiungono il paese di destinazione. Qui li aspetta una guida e, con grande loro meraviglia, sono accolti in un clima di festa che fa insospettire Frigerio e il suo compagno. Nei giorni seguenti possono constatare quanto fondati siano i loro sospetti, perché i quattro prigionieri sono fuggiti e hanno attraversato il confine; invece la famiglia ebrea si è incamminata verso il confine con la guida, che a un certo punto ha spogliato gli ebrei delle pellicce e degli indumenti, ha preteso da loro del denaro e, infine, li ha consegnati ai Tedeschi.
E’ una vicenda che lascia esterrefatti: c’è persino qualche cittadino italiano che collabora con i carnefici facendo affari.

E a Bergamo com’era la situazione?

Anche a Bergamo non sono mancati collaboratori dei carnefici. Nella nostra provincia sono stati catturati 44 ebrei (di cui 35 sono stati presi dagli italiani, cioè dai fascisti, tre dai tedeschi e sei non si sa come) e solamente tre sono sopravvissuti. Ci sono stati anche molti italiani e bergamaschi che si sono opposti ai carnefici: in Italia erano presenti circa 40mila ebrei e 32mila riuscirono a fuggire alla deportazione.. La maggior parte scappò con l’aiuto di conoscenti e amici. Un contributo importante venne dato dal mondo cattolico: religiosi e istituti, cittadini di certe comunità. E l’opposizione alla disumanità portò alla nascita delle prime formazioni partigiane. A Bergamo, per esempio, dall’aiuto ai prigionieri che fuggirono dal campo della Grumellina sorsero le prime formazioni della Resistenza.

Qual è stato il ruolo degli indifferenti?

Sono stati determinanti; gli indifferenti sono una zona grigia e non sarà mai possibile stabilire con precisione quanti fossero, ma di certo sono stati la maggioranza. Di fatto l’indifferenza è una scelta di corresponsabilità con i carnefici; anche la vicenda della famiglia Levi ad Ambivere ha sullo sfondo l’indifferenza di chi lascia fare e si volta dall’altra parte.

Per concludere, oggi a che punto siamo?

Troppi hanno pensato che i conti con questa storia siano stati chiusi con la fine della guerra, ma non è così. Abbiamo fatto troppo poco per capire come sia stata possibile la Shoah e anche a distanza di tanti anni fatichiamo ad accettare che dobbiamo impegnarci affinché non si ripeta. L’istituzione del Giorno della Memoria è stata necessaria, ma non è sufficiente: c’è il rischio di lasciarsi inondare da una commozione momentanea che le immagini dei lager possono suscitare senza indurre a riflettere e soprattutto a modificare gli atteggiamenti scorretti. Le istituzioni, la scuola, le parrocchie, le famiglie e le comunità devono fare di più: occorre uno sforzo per capire come sia potuta accadere la Shoah, ma anche come possa succedere ancora. E si verifica ogni volta che rinunciamo alla nostra intelligenza.

Cosa intende?

Prima di porre fine alla sua vita, Primo Levi incontra una classe di un liceo scientifico e, al termine dell’incontro, uno studente gli chiede come si possa evitare che la Shoah si ripeta. Primo Levi risponde che non bisogna rinunciare alla propria intelligenza e nemmeno cederla ad altre persone. In altre parole, bisogna usare il proprio cervello.

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