Bergamo. Orientarsi nell’inferno delle fiamme non è stato facile, anzi: a tratti è stata una missione impossibile, raccontano i vigili del fuoco di Dalmine, i primi ad arrivare sul posto. “Dovevamo procedere in fila indiana, tenendo una mano sulla bombola del compagno davanti per non perdere il contatto. Il fumo era denso, la visibilità zero e il suono dell’allarme faceva molto rumore”. La mattina del 13 agosto 2019 non è stato facile raggiungere la camera 107, situata al terzo piano del reparto di psichiatria dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo. Da lì sono partite le fiamme e lì era contenuta a letto Elena Casetto, la 19enne di origini brasiliane residente a Osio Sopra morta nell’incendio che lei stessa, tormentata dal mal di vivere, avrebbe provocato servendosi di un accendino nascosto nelle parti intime.
“Non c’erano evacuatori di fumo, non c’era la possibilità di aprire finestre e le porte erano chiuse a chiave”, ad eccezione di quelle collassate per il calore. “Nessun varco, abbiamo proceduto solo con il riferimento della persona davanti”.
I vigili del fuoco hanno raccontato di essere saliti in reparto usando le scale interne, accompagnati da uno degli addetti della squadra antincendio del Papa Giovanni. Ma le condizioni ambientali erano ostili a causa del troppo fumo e della temperatura che aumentava man mano si addentravano nei corridoi, tanto da costringerli ad indietreggiare e cambiare percorso, passando dalle scale antincendio e perdendo forse del tempo prezioso.
È uno dei passaggi emersi giovedì mattina (19 gennaio) in tribunale a Bergamo durante il processo a carico di A.B, 40 anni di Lissone, ed E.G., 39 anni di Paderno Dugnano, ovvero i due addetti della squadra antincendio, all’epoca dipendenti dell’impresa appaltatrice del servizio di pronto intervento dell’ospedale. L’ipotesi di reato formulata nei loro confronti dal pubblico ministero Letizia Ruggeri è omicidio colposo. Perché – sostiene il pm – il loro intervento nell’immediatezza dei fatti sarebbe stato tutt’altro che da manuale.
Le testimonianze della polizia scientifica e dei vigili del fuoco di Dalmine e Bergamo hanno descritto al giudice Laura Garufi il difficile contesto in cui operarono quel giorno i soccorsi. E fornito qualche indizio sulle presunte negligenze dei due addetti, sostenute dalla procura e tutte da appurare. Per esempio, in aula è stato detto che prima dell’arrivo dei pompieri sarebbero stati usati solo due estintori. Un terzo, invece, non sarebbe stato usato correttamente perché aveva la valvola piegata. Stesso discorso per le manichette antincendio: una era stata trovata srotolata, ma a circa 30 metri dalla camera dove si trovava la paziente e quindi poco funzionale all’uso.
Altro dettaglio, la presenza di un secondo accendino – o meglio, di parti combuste riconducibili a un accendino – repertate all’interno della stanza dove si trovava la paziente (anche se dei controlli non erano incaricati gli addetti della squadra antincendio, unici imputati). Alla fine, la domanda principale attorno alla quale è ruotata l’inchiesta – e ora il processo – è la seguente: Elena Casetto poteva essere salvata? Prossima udienza fissata il 2 marzo.
commenta