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Cinema

La nostra recensione

Bones and All, la pulsione cannibale come strumento di amore totalizzante

Luca Guadagnino porta sullo schermo un racconto di formazione e di presa di coscienza di sé che passa, necessariamente, dall’incontro con l’altro

Titolo: Bones and All

Regia: Luca Guadagnino

Paese di produzione/anno/durata: USA/2022/130 minuti

Interpreti: Taylor Russell, Timothée Chalamet, Mark Rylance, André Holland, Chloë Sevigny, Jessica Harper, David Gordon Green, Michael Stuhlbarg, Jake Horowitz

Programmazione: Capitol, UCI Cinemas Orio, UCI Cinemas Curno, Starplex Romano, Arcadia Stezzano, Treviglio Anteo spazioCinema

Amore come nutrimento. Un amore senza eccezioni, senza vincoli, ma anche senza possibilità sociali è quello che traspare da Bones and All, il nuovo film di Luca Guadagnino, Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia 2022, al cinema dal 23 novembre. Un romantic horror che mostra la storia d’amore tra Maren e Lee, negli ambienti rurali degli Stati Uniti di metà anni Ottanta. Due ragazzi che vivono ai margini, costretti, più che dalla società, dalla loro stessa natura. Maren (interpretata da Taylor Russell) vive in Virginia con il padre, ma da sempre è in continuo movimento. La sua ricerca di nuove amicizie si scontra con il proprio essere, impulsi improvvisi e irrefrenabili che la spingono a cibarsi di carne umana. Un morso ad un dito di un’amica mostra subito come per Maren non possano valere le regole comuni del vivere civile, come gli impulsi dell’adolescenza obblighino lei e il padre a spostarsi di continuo, per non essere inquadrati, imputati e definiti alla stregua di mostri. Un continuo vagare senza meta che troverà un senso solo nell’abbandono del padre per andare alla ricerca della madre, mai conosciuta, e delle proprie origini. Dall’horror, Guadagnino passa poi al road movie ed al sentimentale quando Maren incontra Lee (l’efebico Timothée Chalamet), ragazzo solitario che riconosce subito la natura che lo accomuna alla giovane.

I due, borderline sociali, iniziano un viaggio lungo le pianure del Midwest, dal Maryland all’Ohio, dall’Indiana al Minnesota, dal Kentucky all’Idaho, in un road movie negli Stati Uniti rurali che diventa romanzo di formazione. Tratto da Fino all’osso di Camille DeAngelis, il film mostra la crescita di Maren nella presa di coscienza del proprio essere, dal timore del rifiuto alla consapevolezza di sé. “Roviniamo vite, è troppo pericoloso”, confessa la ragazza a Lee, mentre riflette sul proprio ruolo sociale, che può esistere solo attraverso la repressione degli istinti naturali. Una repressione che cozza però con il desiderio di incontro con l’altro. Un desiderio che è bisogno primario, tramite l’istinto atavico della fame che spinge i due a volersi cibare di carne umana, ma anche desiderio metaforico, di relazione con l’altro, di pulsioni che non possono far dimenticare come, in definitiva, l’uomo sia animale sociale.

In questo desiderio risiede anche il cinema di Guadagnino. I due protagonisti vivono una tensione continua tra la solitudine autoimposta e il desiderio dell’altro, tra una tendenza all’autodistruzione e la rinascita (per quanto possibile) in una vita civile nella società, tra il rifiuto e l’accettazione della propria natura. Ritorna sempre la persona al centro della poetica del regista, come nella recente serie We Are Who We Are, nella quale si ritrovano personalità borderline che sono costrette a contenere il proprio sentire per essere accettate dalla società.

Il regista, attraverso l’utilizzo dell’ellissi e dei toni lievi di luce e colori della fotografia di Khachaturan, indugiando anche sui primi piani dei protagonisti, continua la riflessione sugli outsider che popolano i margini della società, che porta anche ad un’analisi sul periodo dell’adolescenza che riflette i primi dubbi e le prime domande esistenziali di ogni ragazzo.

Non a caso, l’ambientazione storica si rifà agli Stati Uniti reaganiani, mettendo però a lato i Baby Boomers per far risaltare i borderline, gli emarginati, ragazzi che all’epoca stavano anche facendo i conti con la diffusione dell’AIDS.

La riflessione sulla propria natura inizia poi, in modo inevitabile, dalle origini. In Bones and All cruciale è il ruolo della famiglia. Il padre di Maren spinge la figlia a trovare la propria strada, alla ricerca di una madre che non ha mai conosciuto. Una madre che riuscirà a r-esistere nella società, fino a quando questa non la esilierà, portandola all’autodistruzione. Distruzione familiare che risiede anche in Lee, il cui legame con la sorella Kayla nasconde però un segreto terribile di violenza e rimorsi. “Hai protetto le persone che amavi” sussurra Maren a Lee, mentre i due cercano di ricostruire un nuovo equilibrio grazie al loro rapporto. Una relazione che diventa amore, attraverso l’incontro con un proprio simile che può comprendere il proprio tormento. In una scena, attorno ad un falò, alcuni redneck, anche loro cannibali, sembrano donare una soluzione a Lee: “forse l’amore ti può salvare”.

Proprio in quelle frasi e nel susseguirsi di scene macabre che portano al finale sembra risiedere la riflessione di Luca Guadagnino. L’horror del regista non si nutre di scene splatter o di jumpscare, quanto piuttosto dalla descrizione anche cruda di una natura che è altro dall’umano, ma che resta comunque impregnata di amore. Un sentimento più forte di ogni giudizio, che non sparisce di fronte alla violenza, ma che, anzi, ne fa un suo strumento. Proprio per questo non si può non empatizzare con i due amanti cannibali, perché il regista porta sullo schermo una descrizione dell’amore che risuona molto attuale e contemporanea: un amore che non fa domande, che sfugge alle logiche sociali, facendosi motore e scopo ultimo della vita stessa. Un amore capace di rispecchiarsi nello sguardo dell’altro, un amore totalizzante che, nel rapporto, trova il proprio nutrimento.

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