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Il personaggio

Il professor Locatelli: “Nella mia Atalanta ideale? Il genio di Morfeo e la grinta di Rustico”

Il presidente del Consiglio Superiore di Sanità per una sera indossa i panni del tifoso e racconta la sua formazione. "Non dimentico Scirea: come diceva Guccini, gli eroi sono tutti giovani e belli".

Professore, si può dire che l’Atalanta per lei è un virus…in maniera un po’ speciale?
“Direi che più che un virus è un imprinting genetico, nel senso che lo ricevi da piccolo e poi ti condiziona piacevolmente per tutta la vita”.

Metti una sera a parlare, sì anche di Covid, perché a Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, non si può non chiedere che cosa ci si può aspettare, nei prossimi mesi, sul fronte della lotta al Covid. In realtà l’argomento della serata è più frivolo, se vogliamo, ma il prof si smarca volentieri per qualche ora dalle riunioni o telefonate col presidente del Consiglio Draghi, o col ministro Speranza, per conversare di calcio. Con la passione e la competenza di un giornalista sportivo molto informato. E magari, invece del completo blu stile conferenza stampa, potrebbe indossare la maglia numero 10, quella che portava sulle spalle il suo preferito, Domenico Morfeo, un genio del pallone da cui il prof è rimasto affascinato. Ma poi ci arriviamo. Intanto proviamo a spiegare questa passione per l’Atalanta, che Locatelli si porta dietro tra un congresso e l’altro in qualsiasi parte del mondo, dove lui si tiene informato sulla Dea con i canali più impensabili e anche colleghi scienziati hanno imparato a chiedergli, “scusa, sai cosa ha fatto l’Atalanta?”.

L’occasione è l’evento Fahrenheit 442 con tema la letteratura sportiva e che la Biblioteca Comunale di Sarnico l’Assessorato alla Cultura hanno voluto dedicare al volume “Una Dea senza tempo”, dodici scrittori per un’Atalanta sentimentale, appuntamento organizzato nello splendido scenario di Stella Maris, a due passi dal lago.

In realtà la star della serata è Franco Locatelli, bergamasco di lago (é di Costa Volpino) ormai quasi sempre a Roma, ma per una volta strappato agli impegni istituzionali (“per me è un puro divertissement essere qui questa sera e quindi ve ne sono grato”) e che molto volentieri si presta a raccontare come può, talvolta, anche uno scienziato serissimo perdere la testa per una squadra di calcio: “L’Atalanta è la mia radice”, confessa “l’Atalanta è il mio cuore”. Aggiunge: “Come nasce il mio amore? Ovviamente per influenze parentali, potrei dire per quelli che c’erano e non ci sono più e questo potrebbe già bastare. Ma dico anche che tifare per l’Atalanta negli anni in cui sono nato (3 luglio 1960, ndr) era un po’ come tifare per gli indiani nelle lotte per i cowboy. Cioè era facile tifare per l’Inter, il Milan, la Juventus: tifare per l’Atalanta voleva dire anche avere un po’ di coraggio per affermare le proprie radici, il proprio orgoglio di appartenere a questa terra, per sentirsi ancora più radicato nella stessa”.

E il prof non si tira indietro nemmeno quando gli si chiede di snocciolare lui, la sua formazione di un’Atalanta sentimentale. “Vi spiego anche perché. Il portiere Gigi Pizzaballa: bergamasco, vince la Coppa Italia, fa una partita memorabile permettendoci di pareggiare in maniera del tutto insperata con la Juventus e mi ha fatto impazzire quando la sua figurina non si trovava mai. Come terzino destro ho scelto Fabio Rustico: non certamente perché sia stato il più dotato dei terzini dell’Atalanta, anzi forse di doti per arrivare dove è arrivato ne aveva relativamente poche, ma l’ho scelto per la determinazione, perché è riuscito a costruire una carriera sulla voglia di arrivare, il culto della fatica e poi merita di essere riconosciuto anche per il servizio che ha fatto alle istituzioni, per Bergamo quando è stato assessore. Terzino sinistro , non lo dico per piaggeria visto che qui c’è anche suo papà il dottor Giancarlo, ma dico Gian Paolo Bellini, la bandiera dell’Atalanta, uno che non ha mai cambiato la squadra e chissà quante occasioni ha avuto, il papà ce lo potrebbe raccontare. Ma ha rappresentato uno degli ultimi giocatori simbolo di una società. I due centrali? Vavassori, perché era un grande stopper e ha avuto una carriera rovinata da un brutto infortunio, è stato un maestro di calcio, credo che abbia un acume tattico difficilmente pareggiabile. L’altro centrale, beh pochi dubbi: Scirea, perché come diceva Guccini gli eroi son tutti giovani e belli. E la vita, o meglio la morte, se l’è portato via quando era ancora troppo giovane. Il numero 4? Marten de Roon, classico esempio di uno straniero che arriva a Bergamo, trova una sua dimensione e non solo decide di fermarsi ma addirittura ritorna”.

Il prof prosegue con la sua personale formazione, come se stesse spiegando perché bisogna mantenere le antenne alzate per combattere il virus, pur meno letale per fortuna, anche preparandosi (almeno le età più avanzate) a una quarta dose. Continua Locatelli ed è un piacere ascoltarlo, anche per chi non conosce vita e miracoli della Dea: “Sull’attacco sono un po’ sbilanciato. Scelgo come maglia numero 7 Stromberg: difficile arrivare a Bergamo e fermarsi otto anni, dopo aver vinto una competizione europea, dopo aver vinto un campionato in Portogallo, diventando di fatto il simbolo dell’Atalanta e trovando l’intelligenza e il coraggio di smettere prima di fare danno all’immagine del suo ricordo.

Al numero 8 Augusto Scala, uno che per tre quarti del campionato ti faceva arrabbiare, di un’indolenza assoluta, ma poi quando voleva giocare come lui sapeva giocare ti faceva vincere delle partite da solo. Temo che spesso coincidesse con i tempi di rinnovo del contratto, però insomma, poco cambia. Al 9 Zapata, ha portato l’Atalanta in una dimensione assolutamente unica, è fiorito a Bergamo come quelle rose che sbocciano dopo una notte di pioggerellina lieve che le fa fiorire nel loro massimo splendore in una giornata di maggio. Al 10 il mio giocatore preferito: Morfeo. Credo sia stato uno dei più grandi talenti della storia del calcio italiano più recente. Per chi non se lo ricorda, Totti nelle giovanili azzurre era la riserva di Morfeo. In qualche atteggiamento anche irritante, provocatorio, le mani sulle orecchie allo stadio di Bergamo dopo aver segnato un gol piuttosto che aver lanciato da 40 metri sul piede un attaccante… Avrebbe potuto avere tutto il successo possibile e immaginabile, ma forse a me Morfeo piace proprio perché non l’ha avuto, alla fine è un talento non compiutamente espresso, un genio unico e forse anche irripetibile. All’11, metto un po’ di veleno in coda: Bertuzzo, Ezio gol, prima ci fa vincere un campionato di Serie B, l’anno dopo lo riprendiamo ma non è più lo stesso Bertuzzo, ma voi volete mettere il piacere di comperare e valorizzare un giocatore che veniva dal Brescia? Beh, è unico come soddisfazione per chi ha sangue neroblu nelle vene”, sorride il prof e si becca l’applauso.

Infine, l’allenatore. Con una scelta imprevedibile. “Non vorrei essere accusato di blasfemia”, spiega il ‘ct’ Locatelli, “ovvio che ci sono pochi dubbi che a Bergamo c’è un calcio prima e dopo Gasperini. E quindi verrebbe facile scegliere Gasp. Io invece scelgo Ottavio Bianchi: ha fatto due campionati straordinari all’Atalanta, prenderla in Serie C e portarla in Serie B era l’impresa più difficile del mondo, non certo perché l’Atalanta non fosse la favorita in Serie C, ma perché non puoi sbagliare. Poi perché ha fatto vincere un campionato al Napoli e aver saputo gestire Maradona è un merito impareggiabile. E credo capisca di calcio come nessun altro”.

Sì caro prof, anche lei ne capisce, non solo perché è un appassionato tifoso della Dea. Cuore nerazzurro, ma pronto a emozionarsi e commuoversi quando una signora si avvicina, non tanto per chiedergli un autografo ma per confessargli di essere sopravvissuta a cinquanta giorni di terapia intensiva, vincendo la sua battaglia contro il Covid. Questa, riconosce Locatelli, è la partita più bella. E l’abbraccio sincero alla signora, con gli occhi lucidi, vale molto più che una prodezza di Duvàn o una genialata di Morfeo. Stavolta, il gol, Franco Locatelli lo sente un po’ anche suo.

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