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L'intervista

“I 5 Stelle tra l’inversione a U cubitale di Di Maio e le contraddizioni di Conte”

Sui social, su Facebook in particolare, c'è un bergamasco, colto e preparato, che ha un corposo seguito quando scrive di politica, in particolare del Movimento 5 Stelle del quale sottolinea positività e criticità in modo lucido. È Michele Pizzolato, l'abbiamo intervistato

Sui social, su Facebook in particolare, c’è un bergamasco, colto e preparato, che ha un corposo seguito quando scrive di politica, in particolare del Movimento 5 Stelle del quale sottolinea positività e criticità in modo lucido. È Michele Pizzolato. L’abbiamo intervistato utilizzando proprio il social network sulla scissione del Movimento e ne è uscito un quadro attuale e interessante.

Lei, da sostenitore da quale ala si sente rappresentato oggi dopo la scissione di Luig Di Maio?

Premetto che sono un semplice elettore, appassionato di politica, non sono mai stato iscritto al M5S. L’unica tessera che ho in tasca è quella ANPI. Ho votato nel 2018 il M5S, convintamente, su tre assi fondamentali della proposta politica: il rinnovo della classe politica che in Italia ha un valore in sé, la battaglia per la legalità, che in Italia ha un contenuto non solo etico, ma anche ed eminentemente economico (pensiamo solo al valore della corruzione o della evasione fiscale) e la lotta alla povertà. Lotta alla povertà che si è concretizzata nella bandiera del reddito di cittadinanza. Provvedimento criticabile in alcuni aspetti, ma anche da terzi commentatori riconosciuto come il più importante intervento politico di lotta alla povertà da 40 anni a questa parte. L’azione del M5S ha soddisfatto solo parzialmente le mie aspettative, positivamente col reddito di cittadinanza, molto meno nella battaglia sulla legalità, con una prima fase positiva (riforma prescrizione), successivamente molto ridimensionata e molto poco nel rinnovo della classe politica. Classe politica del M5S che non ha tardato, in molte componenti, a omogenizzare le proprie prassi a quelle della politica tradizionale italiana. Non sono pertanto del tutto insoddisfatto del mio voto (specie se lo confronto con i miei voti passati…), ma oggi non vedo le ragioni che mi avevano convinto a votare M5S, meno che meno nella nuova forza di Di Maio. Mi riservo, sempre su quegli assi fondamentali, di valutare prossimi candidati e programmi.

Come considera il ministro Di Maio e i suoi 62 sostenitori? Quali motivi veri della diaspora? Come vede il suo futuro?

Di Maio, in particolare col governo Draghi, ha assunto un orientamento politico moderato-conservatore. Politicamente obiettivamente molto vicino, al di là delle profonde antipatie personali, ai centristi italiani, a Renzi, a Calenda, a Mastella. Per propria ammissione ha cambiato radicalmente idea su punti essenziali della propria “fede” politica: gli incontri con i Gilet Gialli, le affermazioni sui referendum sull’euro si sono trasformate in una fede, apparentemente incrollabile (oggi… domani?), nei valori euro-atlantici. Tutto ciò suona come una inversione ad U maiuscola, direi cubitale; inversione che lo allontana a mio avviso significativamente dal sentire comune dell’elettorato del Movimento nel 2018. La diaspora era nell’aria… c’era solo da capire se usciva Conte o Di Maio. Sicuramente Di Maio e i suoi hanno capito, probabilmente prima di altri, che il M5S è in una crisi poco reversibile di consenso e che Conte, molto debole all’interno del movimento, non avrebbe mai strappato col governo Draghi, guadagnandosi alla meglio un futuro da partitino. Questo ha agevolato la diaspora, senza trascurare l’effetto del divieto del terzo mandato. Non vedo un grande consenso popolare per la formazione di Di Maio. La vedo casomai come una componente di un rassemblement del puzzle centrista che potrà, alla meglio, negoziare qualche seggio sicuro per sé e per pochissimi fedelissimi alle coalizioni o di centrodestra o di centrosinistra. Triste parabola per uno partito con velleità da rivoluzionario…

E l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte? È più vicino al suo sentire, ma forse gli manca il coraggio di prendere decisioni drastiche in questo momento oggettivamente particolare ed eccezionale: concorda?

Conte è sicuramente più vicino agli ideali e al comune sentire dell’elettorato del Movimento nel 2018 ed è anche una figura seria e onesta che spicca nel panorama politico italiano. La sua nomina a leader del M5S da esterno al parlamento, lo ha condannato fin da subito ad una profonda debolezza nei rapporti con i gruppi parlamentari; gruppi parlamentari che rispondevano, e rispondono, secondo me, molto più ai Di Maio, ai Fico, che a Conte. A ciò, in diverse fasi, si sono aggiunte critiche pesantissime, difficilmente comprensibili, da parte di Grillo: ricordiamo il “deve studiare di più” sullo statuto, che sicuramente non lo hanno aiutato.
Paradossalmente Conte ha il residuo consenso del M5S ma non controlla i rappresentanti del Movimento. Questo lo costringe ad atteggiamenti non esenti da contraddizioni. Il suo segno politico stanno diventando i “penultimatum”… fattispecie molto popolare nella DC di metà/fine anni 80… prima del tracollo. Porta la maggioranza a due passi dallo strappo, vedasi anche votazioni sull’Ucraina, ma poi rassicura che “Draghi non è in discussione” e procede a compromessi obiettivamente molto deboli rispetto alle premesse. Questo alla lunga logora immagine e consenso

Quando si è rotto qualcosa nel Movimento? E come è cambiato il Movimento negli anni? Si è snaturato? Qual è il ruolo di Beppe Grillo?

Una perdita di consenso, dopo il 32% del 2018, passando da movimento anti sistema ad architrave del governo era del tutto fisiologica. Il consenso, stando ai sondaggi, assestatosi fra il 17/19% nelle due esperienze dei governi giallo verde e giallo rosa, rispecchiava questo calo (riflettendo già alcuni errori, come la subalternità a Salvini sulla immigrazione), mantenendo un consenso elevato e con possibilità anche di recupero di diversi punti.

Il punto di svolta, indubitabilmente, per il M5S è stato il governo Draghi. Prima la caduta politica, rovinosa, di Conte che pur aveva ben gestito la crisi COVID e aveva ottenuto il clamoroso successo dei miliardi del Recovery. Caduta nemmeno passata attraverso un voto di sfiducia al Parlamento… lo svuotamento del ruolo che la costituzione assegna al Parlamento ha molte sfaccettature. Si è tanto parlato del ruolo di Renzi, ovviamente centrale in quella caduta del governo M5S-PD. Si è parlato molto meno del ruolo del M5S e del PD. Ricordiamo tutti che le prime reazioni alla sfiducia renziana furono chiarissime: “o Conte o elezioni”. Reazioni del M5S, ma non diversissime da quelle del PD. E saremmo stati tutti curiosi di vedere cosa avrebbe fatto il parlamento messo di fronte ad un vero out out: se PD e M5S fossero stati fermi sulla posizione non si può escludere che Conte sarebbe ancora Premier. Ma lì la storia è cambiata. Il M5S abbandona le barricate pro Conte e si allinea sulla linea moderata di Di Maio: bisogna gestire i miliardi del Recovery, questa la linea, sostenuta anche dal Grillo incomprensibile de “Draghi è un grillino”…

E Conte viene sacrificato a Draghi. Nella maggioranza entrano Berlusconi-Salvini-Renzi… qui si determina lo strappo pesante ed ideale fra elettorato del M5S e vertici. Da lì il M5S si biforca completamente. Conte in assenza di controllo sui gruppi parlamentari non se la sente di fare uno strappo. E lì, dal punto di vista del puro politico perde una occasione storica. Il suo consenso è al massimo. L’avversione per l’operazione che lo ha defenestrato era nella base del suo elettorato, altissima. Ma Conte, probabilmente per paura di un vuoto nel proprio percorso politico rientra nei ranghi e accetta di guidare un M5S minoranza a governo Draghi, assieme a Berlusconi e Renzi: unico vero vincitore del Movimento di quella fase, Di Maio, sempre in sella! Da lì ad oggi è un ripetersi di questo schema… anche sull’Ucraina: grandi proclami, nessuno o pochissime azioni. Il ruolo di Grillo nel Movimento è stato essenziale, direi totalizzante, fino al passaggio sul governo Draghi. Ora pesa a mio avviso assolutamente meno.

Secondo lei cosa succederà adesso al governo Draghi?

Considerato l’orizzonte elettorale, le evoluzioni dei gruppi parlamentari, gli orientamenti dei partiti e, non ultimo, il taglio dei parlamentari che fa traballare molte carriere politiche, credo che Draghi veleggi tranquillo fino alla scadenza della legislatura.

E cosa ne sarà dei 5 Stelle? Cosa si dovrebbe fare per tornare, se possibile, agli antichi splendori del 33%?

Sono pessimista, non credo possibile un ritorno al 33% meno che meno da qui a marzo 2023. Rimarrà, forse, un partito attorno al 10% (anche se i risultati delle amministrative parlano di rischi di tracollo, ma sono diverse dalle politiche). Un alleato numericamente subalterno al PD nella coalizione di centrosinistra. Credo che l’ultimo treno per provare da parte di Conte a recuperare parte del consenso, sia passato con la risoluzione sull’Ucraina. Conte avrebbe potuto politicamente difendere fino in fondo, anche mettendo a rischio la propria presenza a governo, la rappresentanza della maggioranza degli italiani; italiani molto più rappresentati dalle parole del Papa sulla guerra, che da tutto il parlamento messo assieme; italiani profondamente avversi a Putin, ma contrari a fornire armi nel conflitto per i drammatici rischi di escalation. Conte lo ha detto, ma non lo ha fatto, ottenendo l’ennesimo compromesso dal valore politico davvero insignificante. Vedremo comunque i prossimi passi.

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