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L'iniziativa

Con lo spettacolo “Fine pena ora”, il teatro entra nel carcere di via Gleno

Il progetto nasce dalla sinergia tra il dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Bergamo, la Fondazione istituti educativi, il Centro di Servizio per il Volontariato e l’Associazione Carcere e Territorio

Bergamo. I saluti, le strette di mano, i sorrisi e i “grazie” pieni di sincerità quando le luci della sala si riaccendono. Era dedicato anche e soprattutto a loro, i detenuti della casa circondariale di Bergamo, “Fine Pena Ora”, la rappresentazione teatrale portata in scena mercoledì pomeriggio proprio all’interno del carcere di via Monte Gleno.

E loro, una settantina di detenuti – compresa una componente femminile – hanno apprezzato e ringraziato gli artisti. Perché Fine Pena Ora parla ai detenuti della storia di un detenuto, raccontando il dramma umano più intimo di un ergastolano attraverso la narrazione dello stesso giudice che lo ha condannato.

Nato nell’ambito della Terza Missione del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Bergamo, la rappresentazione teatrale chiude un ciclo di cinque incontri inaugurato lo scorso settembre e che ha coinvolto non solo i detenuti ma tutta la cittadinanza e anche le scuole.

Lo spettacolo è una riduzione drammaturgica del romanzo Fine pena: ora scritto dall’ex magistrato del Csm e senatore del Partito Democratico Elvio Fassone. Un adattamento toccante e commovente quello portato nel carcere di Bergamo, grazie alla voce narrante di Michele Marinini e alle musiche – originali – composte da Michele Agazzi e Marco Azzerboni.

La storia

Nel 1985 si celebra a Torino un maxiprocesso alla mafia catanese: Elvio Fassone è Presidente della Corte d’Assise, Salvatore uno dei più pericolosi imputati ed esponente di spicco della cosiddetta “bocca di fuoco”. Sulla sua scheda personale è riportata la scritta “fine pena: mai”. Il giorno dopo la sentenza che condanna Salvatore al carcere a vita il giudice Fassone ripensa alla voce dell’imputato quando gli ricordava: “Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia”.

D’impulso decide di scrivergli una lettera a cui allega un libro. È l’inizio di uno scambio epistolare che durerà per ben 26 anni: “Nemmeno tra due amanti” ammette l’autore, “è possibile uno scambio di lettere così lungo”. Tra i due nasce un rapporto di reciproco rispetto e di fiducia. L’inizio della corrispondenza fra i due non è un pentimento del giudice per la condanna inflitta, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. Un gesto che si accompagna a una continua riflessione di Fassone sul senso della pena.

Negli anni Salvatore cerca di riprendere in mano la sua esistenza tra la sua voglia di emanciparsi con lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. Salvatore è diventato un’altra persona, ma da una casa circondariale all’altra lo sconforto si fa disperazione fino a un tentativo di suicidio.

“Fine pena: ora” non è dunque un’invenzione letteraria ma la rielaborazione di una storia vera. Non è un saggio sulle carceri ma un avvincente romanzo che riflette su come sia possibile conciliare la domanda della sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena.
È il medesimo valore che lo spettacolo ha cercato di trasmettere agli ospiti esterni della casa circondariale, ma soprattutto a quelli interni.

Il progetto, coordinato dalla professoressa Daniela D’Adamo dell’Università di Bergamo, nasce dalla sinergia tra il dipartimento di Giurisprudenza nell’ambito del Public engagement e la Fondazione istituti educativi di Bergamo, con la collaborazione del Centro di Servizio per il Volontariato di Bergamo e dell’Associazione Carcere e Territorio Bergamo.

“Questo spettacolo è nato per sensibilizzare su temi nostri, su cui facciamo ricerca e didattica – spiega D’Adamo -. La cosa meravigliosa però è che abbiamo invitato esterni e detenuti. Volevamo fortemente che l’ultimo atto del percorso fosse qui perché i detenuti si sentissero al centro, e per far capire che non si fa ricerca e didattica arroccati in un’acropoli ma che la nostra è un’attività di inclusione”.

Un’inclusione che passa attraverso l’arte e la capacità di trasmettere la bellezza. “Il codice del linguaggio è fondamentale. Il teatro è un veicolo di emozioni e di riflessione, forse un veicolo privilegiato. Tramite l’emozione si suscita la riflessione e insieme si vive un’esperienza. È impattante anche per gli artisti”.

La preparazione dello spettacolo non è stata solo quella di narratore e musicisti. Sono stati in particolare i detenuti i destinatari dell’attenzione maggiore, a testimonianza del forte legame di collaborazione sociale tra carcere e Università. “Abbiamo lavorato con la Direzione e con la psicologa del carcere per preparare i ragazzi. Sono temi che non possono essere affrontati senza un adeguato approfondimento. Questo è il nostro obiettivo: creare progetti di contenuto insieme. Perché è da qui che si parte”.

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