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Trent’anni dopo

Capaci, quel tratto di autostrada che fa scattare ancora lacrime e rabbia

Tra l’aeroporto e Palermo due alte stele: è lì che esplode la Fiat Croma che riporta il giudice Giovanni Falcone a casa da Roma

Quando percorri quel tratto di autostrada, tra l’aeroporto di Punta Raisi e la città di Palermo, quel pezzetto in territorio di Capaci oggi segnalato da due alte stele, non puoi non pensare a quel giorno di trent’anni fa. Ventitré maggio 1992. Ore 17.57. Un’auto esplode: è la Fiat Croma che riporta il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo a casa da Roma.

Non puoi non pensare alle vite spezzate da quello scoppio azionato a poche decine di metri di distanza: cinque. Oltre al magistrato e alla consorte, tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Non puoi non pensare che è stato un attentato annunciato. Ciononostante nessuno l’ha fermato.

Non puoi non pensare che di lì a meno di due mesi l’alter ego del giudice Falcone, Paolo Borsellino, consapevole del proprio destino segnato, segnatissimo, avrebbe subito la stessa tragica sorte.

Non puoi non pensare all’immane lavoro, alla coraggiosa fatica che ha portato quel servitore dello Stato a incastrare per la prima volta intere famiglie mafiose, in un maxi processo che ne ha decretato la fine.

Non puoi non pensare ai veleni che hanno accompagnato buona parte delle sue scelte, ai tradimenti, ai corvi. Alle delusioni subite anche e soprattutto da colleghi, quelli con cui ha condiviso anni di impegno nel pool antimafia.

Non puoi non pensare alla reazione di questo Paese, fino ad allora indifferente, poi d’improvviso, scosso e sconvolto, che ha urlato il suo “basta” alla mafia, oggi silenziosa, acquattata, ma non ancora sconfitta.

Non puoi non pensare ai segreti che impediscono a tutt’oggi di conoscere la verità su quella e le altre stragi.

Non puoi non commuoverti. E, per l’ennesima volta, arrabbiarti.

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