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Cinema

Appunti e disappunti

Bilancio di 4 giorni al Festival di Cannes: dal film più deludente al più inquietante

La nostra Paola Suardi al Festival di Cannes non ha mancato con il suo taccuino di segnare i suoi "appunti e disappunti"

Cannes (Francia). Bilancio di quattro giorni al Festival di Cannes: 13 proiezioni di cui 3 documentari, 1 film d’animazione, 1 film d’apertura, 5 in concorso (su 21), 2 della rassegna Cannes Première, 1 della rassegna Un Certain Regard. Molti stimoli e informazioni su temi e autori noti, meno noti, o addirittura ignoti. Qualche bel film e molte perplessità. Ecco di seguito i nostri appunti e disappunti.

Cominciamo dai film in concorso: Il più irritante?
“Frère et Soeur” di Arnaud Desplechin. Un melo insulso e faticoso, slegato e pieni di luoghi comuni sulle relazioni all’interno di una famiglia alto borghese. Una sceneggiatura artificiosa e superficiale con personaggi-cliché lontani dal reale. Nel film si continua a parlare dell’odio tra il fratello e la sorella protagonisti, ma non se ne capisce l’origine autentica. In compenso ci vengono propinate banalità pseudo-intelletuali di ogni tipo: ipersensibilità malata, oppio per il fratello scrittore e antidepressivi per la sorella attrice di teatro – entrambi famosi – un sentore di incesto non consumato, rapporti sofferti tra genitori e figli, un tocco di ebraismo, un terzo fratello gay per la nota politically correct, e alla fine l’apoteosi di un viaggio in Africa per una catarsi. Alla larga!

Il più deludente? “Tchaicovsky’s wife” di Kirill Serebrennikov che dispiega ottima fotografia, raffinati costumi e ricostruzioni di ambienti, nonché una valida interpretazione della protagonista, e le dissipa in una narrazione che si perde in immagini di fassbinderiana memoria, ma di gran lunga meno efficaci e piuttosto volgari. È la storia dello sfortunato matrimonio del notissimo compositore russo, omosessuale, e della moglie ossessivamente innamorata di lui che finirà pazza. Non bastano alcune trovate formali, come l’apertura con il risveglio momentaneo della salma di Ciaikovskji, o la presenza disturbante e ricorrente di una mosca fin dalle prima scene del film, o ancora la lordura di strade e secchiate che più volte lambiscono la protagonista in modo apparentemente casuale, la rarefazione degli arredi man mano che nella mente della moglie l’ossessione evolve in vera e propria follia, per tenere insieme il senso di questo film.

Il più elementare? “EO” di Jerzy Skolimowski, che ci conduce a seguire le avventure di un asino allontanato dalla ragazza che si esibiva con lui in un circo e lo accudiva con enorme affetto. Inizia un viaggio, una migrazione attraverso più situazioni, che viviamo con lo sguardo malinconico ma severo dell’asino. Uno sguardo acuto quello dell’animale, e parimenti del noto regista polacco, che si sofferma su particolari minuti ai quali l’umano non darebbe importanza, oppure riesce a rendere l’assurdità di alcune situazioni, ma anche la punta di ammirazione o di invidia dell’asino verso i magnifici cavalli che corrono liberi e godono di particolare attenzione dagli uomini. Gli esseri umani… ogni volta che compaiono nel film creano guai seri. Elementare perché il tema del “chi è il vero asino?” è presto detto e un po’ scontatamente reiterato fino alla fine, brutale ma preannunciata; elementare perché l’uso che fa Skolimoswski della macchina da presa sembra quello, colmo di stupore, di un giovane cineasta che lavora a un saggio per la scuola di cinema; elementare perché sembra a un certo punto risolvere l’avanzamento dell’azione introducendo personaggi improbabili (un bohémien dissipatore della fortuna familiare che si scopre essere un sacerdote e la madre inviperita…?!). Alcuni momenti sono però molto toccanti.

Il più tranquillo? “Le otto montagne” di Vandermeersch e van Groeningen di cui si è già scritto. Un romanzo di formazione parallelo dei due amici protagonisti, che cercano nel rapporto con la montagna il proprio spazio nel mondo. Gradevole.

Il più classico? “Armageddeon time” di James Gray. Ben girato, ben interpretato, questo film è una declinazione dell’american dream attraverso la storia di un ragazzino di famiglia ebrea che vive a Queens e sogna di divenire un artista famoso. Il sogno dei suoi famigliari è che riceva un’educazione solida che gli apra le porte a una posizione di sicurezza economica prima di tutto, migliore della loro; il sogno dei nonno – ebreo immigrato dall’Europa che ha raggiunto un certo benessere negli Stati Uniti e sostiene gli studi dei due nipoti – è che il ragazzo abbia cultura e si inserisca nel sistema, ma sia capace al contempo di riscattare le umiliazioni di discriminazione subite dagli ebrei anche nel “nuovo mondo”, e quindi sappia schierarsi in difesa dei deboli. Da queste premesse la migrazione del protagonista dalla scuola pubblica alla privata, il feroce contrasto tra i due ambienti, la dolorosa vicenda che lo lega a un compagno di colore conosciuto alla scuola pubblica. Nonostante l’impianto narrativamente solido il film non convince proprio per il confuso mélange di valori che i diversi personaggi vogliono passare, o forse questa vuol essere il tema. Difficile a dirsi.
Sullo sfondo la campagna elettorale di Ronald Reagan, che in un’intervista in tv paventa l’Armageddon (un altro modo per indicare l’Apocalisse), ci ha ricordato che gli USA ben prima di Trump erano caduti in basso e che l’Apocalisse politica e civile è davvero sempre in agguato… Questione di punti di vista.

Il più inquietante appartiene invece alla rassegna “Un Certain Regard”, dove quest’anno la Giuria è presieduta da Valeria Golino.  È il film “Plan 75” della regista giapponese Hayakawa Chie. Una delicata regia che pone in modo raffinatamente feroce il tema dell’invecchiamento della popolazione, della solitudine degli anziani e del loro “sovrannumero” nella società. Il contesto distopico consente di immaginare un piano governativo facoltativo che incentiva l’eutanasia per chi ha superato i 75 anni… e non inorridite perché nel film sembra davvero possibile! Sul finale la narrazione si disunisce un po’ ma la pellicola coglie aspetti delle relazioni tra anziani, della loro solitudine e del rapporto coi giovani davvero interessanti. Da vedere!

Ma il più bello lo troviamo nella sezione “Cannes Première”: “La nuit du 12” di Dominik Moll. Un thriller che racconta molto di più di un caso irrisolto. E lo fa bene, con ritmo e ottime sceneggiatura e interpretazioni. E sottotraccia, alternando tensione e a volte momenti di humor, introduce riflessioni sulla violenza di genere, la libertà di decidere del proprio corpo, le relazioni sentimentali e sessuali e come sono evolute nel costume,… Insomma durante la visione ci rendiamo a poco a poco conto che contano in questa pellicola più la galleria di personaggi incontrati lungo l’indagine e compongono una società composita e complessa, che non forse acchiappare l’omicida. Conta uscire dalle proprie ossessioni e apatie e provare a costruire relazioni autentiche. Come dimostrano l’amicizia tra il giovane commissario e il collega in crisi, e le efficacissime figure delle due donne, una magistrato l’altro agente investigatrice, che si affacciano sul finale del film. Da non perdere proprio.

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