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Cinema

La kermesse

Dal Sudan a Mariupol, a Cannes l’orrore della guerra

In concorso per la Palma d’Oro, le rassegne "Un Certain regard" e la "Quinzaine des Réalisateurs"

PACE – Cannes è un incredibile “frullatore” per chi lo frequenta, con decine di pellicole diverse da visionare. Così, catapultati in storie di tutti i tipi dai film in concorso per la Palma d’Oro, le rassegne “Un Certain regard” e la “Quinzaine des Réalisateurs”, e tanto altro, capita anche di ritrovarsi nel buio di una sala ad appassionarsi per un documentario sul Sudan del Sud, uno degli Stati più volenti al mondo, che racconta la lucida volontà di due giovani promotori di pace nella loro terra. Un ragazzo e una ragazza poco più che ventenni, Gatjang e Nandege, in uno stato giovanissimo – indipendente dal luglio 2011 – e insanguinato da una guerra civile che si esprime in infiniti conflitti fratricidi locali. “For the Sake of Peace” (Per Amore della Pace) è prodotto dalla fondazione creata nel 2021 da Forest Whitaker e girato da Christophe Castagne e Thomas Sametin con una linearità che rende la narrazione avvincente e il contesto molto chiaro. Le azioni dei due mediatori vengono descritte parallelamente con immagini nitide, primi piani e profili attenti a restituirci sguardi e sorrisi, e poi scene di gruppo, con accenti da reportage e da intervista.
Gatjang è allenatore e arbitro in un campo di sfollati a Juba – il documentario è corredato da utili mappe che collocano immediatamente la geografia dei luoghi per lo spettatore – e lo sport è il canale per trasmettere valori che valgono dentro e fuori dal campo di calcio: rispetto per l’avversario, per le regole, autocontrollo, entusiasmo e senso di appartenenza, motivazione. Questa attività – gli allenamenti, i match – è descritta mostrando anche la quotidianità della vita al campo e raccogliendo le voci di chi ci vive e le storie dolorose di tanti. Senza enfasi, ma riuscendo a portare lo spettatore con naturalezza proprio dentro quella realtà così lontana, fino a fare il tifo per un match disputato a livello nazionale.
Nandege è una giovane madre – ma la piccola figlia non vive con lei e la situazione precaria del Paese le impedisce di andare a trovarla di frequente o di avere comunicazioni – decisa a finire i propri studi e a impegnarsi nella mediazione dei conflitti per offrire proprio alla figlia un futuro migliore. Nel documentario la seguiamo in un intervento per avvicinare due tribù pesantemente in conflitto che da sempre si contendono acqua e pascoli della stessa valle e si rubano il bestiame ammazzando per questo senza alcuna remora. I giovani delle tribù crescono nel culto della forza e della violenza finalizzate a questa rivalità, le armi sono sempre tra le loro mani. Vediamo Nandege impegnata prima nella sua formazione, quando acquisisce modalità relazionali e di comunicazione, poi in viaggio accompagnata da alcuni membri della Fondazione e del Governo lungo strade quasi impraticabili, poi a colloquio con l’una e l’altra tribù, nei rispettivi villaggi, infine a condurre l’incontro e la riconciliazione pubblica delle due comunità. Grazie all’abilità giornalistica e narrativa degli autori registriamo le difficoltà, le incertezze, le tensioni e le svolte di questa delicata missione, l’impegno e la concentrazione di Nandege. E proviamo orgoglio per l’esito favorevole, gli abbracci e le danze, ma anche apprensione per la durata di questa riconciliazione… Quando la scena cambia e sei mesi dopo Nandege relaziona a Ginevra sulla situazione apprendiamo con sollievo che le cose vanno ancora nel verso giusto. Un’esperienza utile questo documentario.
GUERRA – E poi questa mattina “Mariupolis 2” : 2 ore di riprese effettuate non più tardi di due mesi fa dal regista e antropologo lituano Mantas Kvedaravicius – nato nel 1976 e ucciso dai Russi proprio a Mariupol in aprile!-, trafugate dalla compagna e montate dalla sua storica montatrice. Il regista era tornato a Mariupol per rintracciare uomini e donne incontrati all’epoca della prima GUERRA del Dombass, quando aveva già documentato il conflitto tra russi e ucraini in questo territorio. Utile anche questa visione, per allontanarsi dalla stoltezza dei talk show e ritrovarsi dentro la guerra, con la camera fissa a riprendere sempre la stessa veduta dalla finestra coi vetri rotti, i tetti e l’orizzonte cittadino da cui si levano bagliori e colonne di fumo, oppure le casette attorno devastate dalle bombe. Impariamo a conoscerle: la rosa, la bianca con le persiane verdi, la gialla, macerie dappertutto.
Albe, tramonti, sempre le bombe in sottofondo, più o meno vicine, più o meno frequenti. Un frammento metallico bollente arriva nel cortile della Chiesa Christiana Evangelica Battista dove si sono rifugiati donne, anziani e bambini, dove la camera registra i loro pasti, le rare parole, la preghiera, i commenti fuori campo. Si parla di cose minute, tenere la pipì durante i bombardamenti, dove reperire acqua, cosa cucinare, dove andare ora che la propria casa è distrutta, che fare dei colombi che si allevavano…
Utile visione anche per chiedersi se non sia voyeurismo rimanere due ore a guardare queste immagini lente, a sperare di rivedere lui, il cineasta, che si intravvede solo all’inizio. Forse è più onesto chi dopo un’ora lascia la sala? La guerra è noiosa, sì. Ma per noi solo guardando e non girando la testa dall’altra parte si va nella direzione giusta.
Grazie, Mantas Kvedaravicius.

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