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L'intervista

Chiara, volontaria bergamasca in Costa d’Avorio: “Che nostalgia, come posso vivere qui la mia Africa?” fotogallery

Ventitré anni, originaria di Vall'Alta di Albino, ha vissuto in prima persona il cosiddetto "Mal d'Africa": "Consiglio a tutti questa esperienza, per scoprirsi e scoprire l'altro"

Albino. Entusiasmo deriva dal greco enthusiasmós: en è il prefisso “in”, theòs significa “dio” e ousìa “respiro”, di conseguenza il termine può essere tradotto come “soffio vitale”.

Questo entusiasmo è ciò che si può cogliere dalle parole di Chiara Valoti, una ragazza di Vall’Alta (frazione di Albino) prossima ai 23 anni, che ci ha raccontato la sua esperienza in Costa d’Avorio, possibile grazie al Centro missionario diocesano di Bergamo.

Partiamo proprio dal principio, ancora prima della decisione della partenza: cosa ti ha spinta a voler intraprendere questa avventura?

Partire, andare in un altro continente, è sempre stato un sogno che custodivo nel cassetto fin da quando ero piccola, ma l’anno scorso si è finalmente presentata l’occasione giusta.

La motivazione era molto forte e vedere gli occhi dei missionari mentre raccontavano le loro esperienze mi ha convinta del tutto a scegliere questa strada.

A livello più pratico, come sei partita?

Ho iniziato a seguire un corso proposto dal Centro missionario diocesano di Bergamo intorno a febbraio: erano incontri che si tenevano circa una volta al mese in cui dei missionari condividevano la loro esperienza; un momento di scambio e condivisione.

Una volta presa la decisione definitiva il Centro metteva a disposizione varie destinazioni tra cui scegliere. Inizialmente la mia idea era quella di andare in Bolivia, questo perché nel mio paese, Vall’Alta, questa meta è molto sentita grazie a Don Umberto Nicoli, uno dei primi missionari a partire con la Diocesi di Bergamo, ma purtroppo causa Covid non è stato possibile. Così mi è stata proposta la Costa d’Avorio e ho subito accettato.

Chiara Valoti, missionaria bergamasca in Costa d'Avorio

Quale è, a parere tuo, lo spirito giusto con cui partire?

Una cosa fondamentale è partire mettendo in pratica l’assenza di giudizio: sono mondi molto distanti e la diversità deve essere accolta senza giudicare.

Siamo abituati a vivere in una società molto individualistica, egoriferita, mentre là funziona tutto in funzione della collettività, della comunità.

Bisogna essere aperti e non avere pregiudizi, ma al contrario lasciarsi andare e creare empatia con l’altro. Non imporsi o mettere le mani avanti ma ascoltare ed essere pronti ad accogliere una nuova cultura.

Diverse cose per un europeo possono sembrare contraddittorie: per esempio lì i bambini, anche piuttosto piccoli, accompagnano il genitore a caccia, ma una volta a tavola questi mangiano per ultimi e magari riescono a sfamarsi solo con gli avanzi.

Di fronte ad una cosa del genere ci sono due possibilità: o il giudizio negativo immediato, oppure ci si può interrogare sulle motivazioni più profonde dietro ad usanze del genere.

È bello porsi domande, ma allo stesso tempo bisogna tenere presente che probabilmente non si riuscirà a dare una risposta a tutte perché non sempre le loro azioni seguono le logiche a cui siamo abituati.

Chiara Valoti, missionaria bergamasca in Costa d'Avorio

Hai notato grandi differenze tra il modo di vivere dei due continenti?

Il clima che si respira è molto diverso: noi qui abbiamo tanto, anzi, tanto di più, e a causa di ciò spesso ci risulta complicato apprezzare le piccole cose; là invece ogni piccola cosa sembra tutto.

Non c’è un giusto né uno sbagliato: sono contesti molto diversi e la bellezza sta proprio nel cogliere queste diversità e il bello che c’è in ognuna di loro, facendolo proprio.

Gli africani come vedono l’Italia?

Tanti di loro vorrebbero venire in Italia ma non sanno effettivamente cosa questo comporti.

Per loro è molto complesso concepire tutti i vincoli, anche burocratici, che ci sono, perchè ad esempio in Africa se una persona possiede un pezzo di terreno è libera di fare ciò che vuole senza problemi, mentre qui le cose vanno diversamente.

Per questo una volta arrivate qui le persone si sentono spaesate e hanno bisogno d’aiuto, di qualcuno che faccia con loro ciò che loro hanno fatto con me: di qualcuno che dica “Ti mostro il bello che c’è qui, che di me ti puoi fidare”.

Ti va di raccontarci un’esperienza positiva e una negativa che ti hanno colpito?

Una situazione negativa è stata quando mi sono ammalata: ho avuto la malaria (influenza trasmessa dalle zanzare) e l’ameba (un parassita intestinale) .

Inizialmente ho dato colpa alla stanchezza, ma successivamente, con il peggiorare dei sintomi, sono andata in ospedale dove mi hanno diagnosticato la malattia e mi hanno dato dei farmaci specifici. Sono stata molto male, mangiavo pochissimo e sudavo freddo, ma nonostante tutto mi sono sentita grata di avere accanto persone che si sono prese cura di me e di avere avuto accesso alle medicine, quando invece molte persone del posto non se lo possono permettere.

La giornata più bella invece è stata una domenica pomeriggio quando, mentre camminavo, una bambina si è affacciata da casa sua e tra tutti i nomi degli animatori ha proprio detto “Chiara”: in quel momento ho avuto la conferma di averla toccata nel profondo e di essere stata una “luce” per lei.

Successivamente io e gli altri volontari abbiamo iniziato a fare delle semplici bolle di sapone e tutti i bambini ci sono venuti incontro entusiasti e li abbiamo visti divertirsi con così poco…

Quelle emozioni così genuine mi hanno insegnato tantissimo.

Chiara Valoti, missionaria bergamasca in Costa d'Avorio

Spesso si sente parlare di “Mal d’Africa”, che cos’è? È una sensazione che si prova veramente quando si lascia quella terra?

Soffrire di mal d’Africa significa, in parole povere, avere una forte nostalgia per il posto.

Una volta tornata a casa infatti mi sono sentita talmente piena di emozioni che è stato destabilizzante; ho avuto quindi bisogno di tempo per elaborare il tutto e riassestarmi.

Per un po’ ho avuto una strana sensazione addosso, come se non appartenessi più agli “schemi” della società occidentale.

Fin dal primo istante là sono stata accolta: nonostante fossi una straniera tutte le persone si sono preoccupate per me e ciò mi ha colmata d’amore.

Questo mi ha colpita perché lo straniero può essere percepito come una curiosità ma anche come una minaccia, mentre lì le parole d’ordine sono state accoglienza e ospitalità.

Ho percepito lo scambio che c’è stato: sono tornata a casa con tantissima consapevolezza ed energia e io spero di aver toccato queste persone come loro hanno fatto con me.

Una volta elaborata l’esperienza ho poi incanalato le emozioni in qualcosa di concreto, ovvero nella volontà di condivisione.

Ora che sei tornata ti senti diversa rispetto a quando sei partita?

Assolutamente sì. Una volta arrivata sul territorio ed entrata in contatto con le persone ho subito capito che potevo essere la persona giusta al momento giusto per quella realtà.

Essendo stata animatrice ho avuto a che fare con bambini dai 4 ai 15 anni e sono rimasta affascinata da come essi vivevano tutto con curiosità ed entusiasmo.

Da loro ho imparato la gratitudine, l’entusiasmo verso la vita e una connessione più profonda con l’ambiente.

Ora mi sento di vivere con un’attenzione in più nei confronti dello straniero e dell’altro.

La mia mission è quella di essere un tassello che aiuti a costruire un mondo migliore e per ora posso farlo grazie alla condivisione. Ciò mi ha aiutato anche a capire meglio cosa voglio per il mio futuro, ovvero partire di nuovo, questa volta per la Bolivia, e ha acceso in me il desiderio di lavorare proprio per un’organizzazione che si occupi di questi temi.

Chiara Valoti, missionaria bergamasca in Costa d'Avorio

Cosa ti sentiresti di dire ad una persona che sta pensando di intraprendere un percorso simile al tuo ma è indecisa e magari un po’ impaurita?

Io consiglio a tutti un’esperienza del genere: importantissima per scoprirsi (io come persona ho imparato a conoscermi ancora di più) e scoprire l’altro.

A fine intervista è stata Chiara a lasciarci con una domanda, quella che lei continua a porre a sé stessa da quando è tornata, ovvero: “Come posso vivere qui la mia Africa?”.

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