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Università di Bergamo, scambi con altri atenei: da Stoccarda all’India e Malesia

La prorettrice Nicora: “A breve doppio titolo con Stoccarda. Lavoriamo per gli scambi con India, Malesia e Lettonia”

Bergamo. “Cinquant’anni sembra un tempo lungo, ma rispetto alle sfide affrontate non lo è”.

Lo sintetizza così il percorso di crescita compiuto dall’Università di Bergamo Flaminia Nicora, prorettrice all’Internazionalizzazione e docente di letteratura inglese. In 54 anni, da quando è nata nel 1968, di passi in avanti ne ha fatti l’UniBg. Dall’essere un piccolo ateneo di provincia è diventato un riferimento in Italia e capace anche di attrarre studenti, docenti e ricercatori da ogni angolo del mondo. Insieme alla professoressa Nicora abbiamo esplorato la dimensione internazionale dell’UniBg.

Professoressa, da anni la città di Bergamo si è aperta al mondo e l’Università sta procedendo nella stessa direzione. Quanto aiuta avere una città così attiva?

Bergamo ha un territorio molto dinamico e l’internazionalizzazione è nel suo dna, per questo anche la didattica e la ricerca non possono non essere internazionali. Credo che per Bergamo la dimensione sia glocale, perché il territorio stesso guarda fuori. Siamo fortunati. E penso che il rapporto con gli stranieri ci abbia aiutati a vederci, a riconoscerci nei nostri punti di forza.

Quali sono gli aspetti che rendono Bergamo così attraente, anche e soprattutto all’estero?

Quello che attrae è la dimensione di una città universitaria, prossima alla metropoli ma che riesce a garantisce i rapporti tra le persone. Parliamo di una città connessa. Ha un aeroporto, il terzo in Italia. È una città d’arte, un sito Unesco, e poi è un importante polo produttivo. E in più ha un’Università di buona qualità.

La crescita passa anche attraverso i numeri. Cosa ci dicono i dati sull’internazionalizzazione dell’UniBg?

Abbiamo il 6 per cento di studenti internazionali e 60 visiting professor, che per un’università con circa 400 docenti non è poco. Abbiamo contatti con 34 paesi e circa 200 università. E il 17 per cento dei nostri studenti è iscritto a corsi di magistrale erogati in una lingua diversa dall’italiano.

Lei si occupa di mobilità e scambi internazionali. L’anno 2020-2021, segnato dalla pandemia, ha inevitabilmente fatto registrare un calo nelle partenze. Come sta andando quest’anno accademico?

Usciamo da un periodo che ha bloccato le partenze, ma se l’anno scorso abbiamo mandato all’estero circa 500 studenti quest’anno abbiamo ammesso ai bandi della mobilità 1023 persone. Non partiranno tutti gli ammessi, ma certamente siamo ritornati ai livelli pre Covid e siamo in crescita. C’è voglia, c’è consapevolezza del valore di un’esperienza all’estero come fattore di crescita personale. Partire significa sviluppare le soft skills, uscire da una dimensione consueta e cambiare mentalità. E i ragazzi tutto questo lo sentono e lo colgono, molto più dell’idea di metterlo nel curriculum.

Si parte più di prima quindi. Quanti invece arrivano?

Anche il dato degli studenti attratti dall’ateneo e che desiderano iscriversi da noi è interessante. L’anno scorso abbiamo avuto 1800 domande di studenti degree seeking, ovvero che vogliono iscriversi da noi, mentre quest’anno siamo a 3480. Di questi la percentuale che si iscriverà sarà più esigua, ma il trend è da notare. Vuol dire che siamo riusciti ad acquisire visibilità in un panorama globale. Abbiamo ripreso a crescere, mostrando una cosa che avrebbe dovuto essere evidente da tempo, e cioè che la formazione italiana è di buon livello e a costi contenuti. È chiaro che si sbarca sul mercato della formazione.

Cosa manca all’UniBg per essere ancora più forte?

Soffriamo un problema di spazi e di residenze che non ci favorisce rispetto ad altri paesi europei, ma stiamo cercando di migliorare su questo fronte. Inoltre la lingua italiana non è studiata ovunque. Per questa ragione è necessario attivare insegnamenti e corsi in altre lingue e in particolare l’inglese per attrarre studenti dal mondo e al tempo stesso costruire altri rapporti di partenariato. Questo rappresenta per noi la sfida.

Oltre ai programmi Erasmus l’Università offre anche “mobilità brevi”. Di cosa si tratta?

Abbiamo programmi di soggiorno all’estero per la redazione delle tesi di laurea, per i tirocini, così come Summer school di grande interesse. Molte di queste sono legate a collaborazioni con università di primo piano come Harvard e l’università di Tsinghua. Sono ottime opportunità per gli studenti.

In generale quali sono le mete più frequenti degli studenti?

Le aree in cui si concentra la mobilità sono l’Europa e gli Stati Uniti, ma non va sottovalutata la quantità di scambi con la Cina e l’Asia in generale, dove abbiamo una mobilità consolidata, ad esempio con la Corea e con un certo numero di università giapponesi. Un altro quadrante in crescita è il Sudamerica, in cui abbiamo scambi attivi con Brasile, Argentina e Messico.

Ha parlato di mercato dell’educazione. In quali zone l’UniBg deve ancora sbarcare?

Di recente abbiamo ricevuto la visita di una delegazione lettone, con cui c’è un’attività di Summer school in corso ma che è destinata a crescere. Un altro scambio di cui si discuterà è con l’università indiana, e speriamo anche con un’università malese con cui abbiamo avviato un primo contatto. Pensiamo di riuscire a crescere presto con i doppi titoli con Riga e con Lione con cui abbiamo già ottimi rapporti. A breve ufficializzeremo quello con Stoccarda, che porterebbe i nostri doppi titoli da 11 a 12.

L’internazionalizzazione però è anche quella fatta nelle aule di Bergamo. Prevedete novità per il prossimo anno da questo punto di vista?

Nella programmazione didattica dell’anno prossimo dobbiamo pensare a un’offerta dei corsi di studio con più forme di di internationalization at home, ovvero in loco. Quindi visiting professor, che portano la ricerca internazionale dentro la didattica e sono anche un modo per attrarre più studenti in ingresso, a loro volta un motore per incoraggiare forme di internazionalizzazione. Essere internazionali non significa solo spostarsi con la valigia.

Cos’è per lei la dimensione internazionale?

Non c’è nessuno che sia fuori dall’internazionalizzazione. Ormai viviamo in una società multiculturale e l’internazionalizzazione è ovunque. Non è una dimensione solo di chi lavora in una multinazionale, ma è una consapevolezza culturale che oggi deve avere anche un insegnante che entra in una classe di scuole elementari, un contesto sempre più multietnico. Per questo penso sia utile sviluppare una forma mentis che ha in mente l’internazionalizzazione, il plurilinguismo e la compresenza di culture. L’internazionalizzazione dev’essere il visiting professor, il compagno di banco e quello che ti sta accanto sull’autobus.

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