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L'intervista

Mamoli e l’Nba sbarcano al Circolino: “Arene e Finals, alle radici del basket Usa”

Il giornalista di Sky Sport e il collega Michele Pettene protagonisti di una serata con gli appassionati che prende il titolo dal loro libro "Basketball Journey"

Bergamo. Un viaggio agli albori del gioco della pallacanestro, sulle tracce del suo inventore James Naismith e nei luoghi che per i più svariati motivi hanno fatto la storia di questo sport: “Basketball Journey” non è solo il titolo di un libro, scritto a quattro mani da Alessandro Mamoli, la voce dell’Nba di Sky Sport, e Michele Pettene, giornalista, ma è anche la descrizione di un vero e proprio peregrinare che i due hanno portato a termine negli Stati Uniti per rendere grazie.

Grazie proprio a Naismith, al quale si sono ispirati per definire gli estremi del viaggio: partendo da Springfield, Massachusetts, sede della prima sperimentale partita di basket, fino all’arrivo a Lawrence, Kansas, dove è sepolto.

Ma “Basketball Journey” è anche il titolo dell’incontro organizzato da Three Throws in collaborazione con Radical Hooper, Boca Basket, King of the Pilo e Circolino Città Alta per le 20.45 di giovedì 26 maggio, proprio al Circolino di Vicolo Sant’Agata 19. Un’occasione per parlare di basket con Mamoli e Pettene (ingresso libero, obbligatoria la prenotazione a eventi@cooperativacittaalta.it), compiendo un altro appassionante viaggio, tra le arene della Nba e dell’Eurolega, dove ci sarà spazio per dialogare apertamente di tutto ciò che riguarda la palla a spicchi.

Mamoli, cosa si ricorda innanzitutto di quel viaggio negli Usa alle fonti della pallacanestro? 

La volontà di volerlo fare. In un’epoca nella quale chiunque ti chiede di parlare dei grandi campioni e dei nomi altisonanti “che tirano”, se proprio avessi dovuto scrivere un libro avrei voluto farlo parlando di ciò che volevo. Non volevamo parlare di pallacanestro moderna, ma andare alle radici del gioco. La prima volontà era dedicare un libro a Naismith, ringraziandolo per averci regalato il basket e aver cambiato la vita di molti, la mia per prima. Sono tutti luoghi che in parte avevo già visto, ma volevo rivederli e raccontarli in una certa maniera perchè mi avevano segnato. Con l’obiettivo di portare il lettore con noi, facendogli immaginare il tutto.

C’è un luogo che l’ha colpita più di altri? 

Sceglierne uno è abbastanza complicato: diciamo che ne prendo due, una più seria e una più goliardica. La prima l’ho sempre voluta vivere dal vivo ed è la rivalità tra Duke e North Carolina. L’altra è la “Silent Night”, folle tradizione di un college dell’Indiana dove il primo venerdì di dicembre tutti assistono a una partita di pallacanestro in maschera.

Passiamo al tema vero e proprio della serata: le arene. Quali differenze ci sono ancora tra quelle americane e quelle europee? 

La differenza sta nel modo di intendere questo sport. Negli Usa tutto nasce per l’intrattenimento, ma anche per il profitto. Tutto ruota attorno al fatto che la squadra possa generare valore. Sapete qual è quella che ci riesce meglio? I New York Knicks, e non certo per le vittorie dato che non vedono l’anello dal 1973 e non fanno una finale dal 1999. Il rendimento della squadra non c’è, però è  New York City e i sono i Knicks. Le squadre Nba sono vere e proprie multinazionali, con centinaia di dipendenti che lavorano per la franchigia per fare in modo che la stessa diventi centrale per la comunità nella quale si trova e che crei profitto, perchè gli stipendi dei giocatori sono “altini”. I migliori arrivano a  40-50 milioni all’anno, mentre in Eurolega i più fortunati arrivano al massimo a 2-3.

Tutto ruota intorno al profitto, ma a discapito del calore delle arene? 

Non esattamente, perchè il profitto nasce dal fatto di riuscire a portare gente al palazzo e intrattenerla. Deve essere tutto a misura di spettatore e tifoso, per le famiglie, con grandi manovre di marketing. Il fine ultimo, poi, è far sì che la squadra vinca ma a inizio stagione è chiaro a tutti che ce ne saranno 20-25 che non vinceranno mai. Quindi devono riuscire a vendere un prodotto a prescindere, non in funzione dei risultati della squadra.

Facendo il paragone con altri sport, ci sono arene considerate più calde dove anche i giocatori sanno che troveranno un ambiente più difficile? 

Diciamo che in generale, soprattuto in questo periodo con i playoff, si scaldano un po’ tutte. Prendete Miami, ad esempio: pur essendo una squadra che va molto bene, la città è multietnica e di passaggio, quindi a vedere le partite ci vanno soprattutto quelli che arrivano da fuori. Altrove, tipo a Boston, hanno invece uno zoccolo duro di tifosi, con i fanatici che seguono da sempre e sono abbonati da anni. Dipende molto da città in città. Con i playoff, invece, si trasformano tutti perchè subentra il senso di appartenenza.

E in Europa? 

Da noi la differenza la fanno o la tradizione del luogo o la partita di cartello. Però ci sono campi storicamente caldi, come ad Atene a casa dell’Olympiacos. Che ultimamente ha fatto parlare molto di sè per la presenza tra il pubblico di Kevin Durant, per la gara cinque tra i greci e il Monaco dell’amico ed ex compagno ai Nets Mike James: lo stesso KD aveva twittato un video dei tifosi con la scritta “l’apocalisse”. Ma anche Tel Aviv è un’arena calda, perchè lì il Maccabi è come se fosse la nazionale e il palazzo è sempre pieno. Poi c’è Belgrado, sponda Partizan, anche se quest’anno ha fatto l’Eurocup. Altre squadre, invece, hanno tifosi meno rumorosi: penso al Bayern Monaco, che fa sì il tutto esaurito ma il pubblico segue in modo più ordinato. Lo stesso per Milano, che ha grande tradizione ma il tifo si scalda un po’ solo nei playoff e nelle partite di alto livello.

Torniamo negli Usa e al basket giocato: quali sono secondo te i motivi del nuovo fallimento Lakers, una franchigia che ha molto seguito anche in Italia?

Questa stagione ha dato un grande insegnamento: se vuoi costruire una squadra con 2-3 giocatori molto forti, che portano via il 70% del monte salari, poi per il resto ti devi arrangiare. Se sei i Lakers e capiti in una stagione in cui LeBron James si fa male qualche volta e Anthony Davis pure, allora sei nei guai perchè dipendi molto da loro. Sono una squadra che è stata costruita male, senza programmazione, cambiando i 10 giocatori attorno alle due stelle. Lo stesso vale per Brooklyn, con Durant, Irving e i suoi litigi col vaccino e Harden: metteteci gli infortuni ed è andata male. La maggior parte delle squadre ancora in corsa, invece, sono state costruite negli anni con un’attenta programmazione. Gli Warriors hanno lo stesso nucleo della squadra che ha fatto cinque finali consecutive e a fianco ha fatto crescere giocatori importanti. Phoenix ha iniziato anni fa a costruire ed è sempre lì. Discorso identico per Boston e Milwaukee. Questo è il trionfo della programmazione sull’idea di costruire squadre mettendo insieme più giocatori forti possibili. Non so se è finita l’era dei “Big Three” o “Big Four”: però oggi i big te li devi costruire in casa. Tornando a Phoenix: ha scelto Booker al draft, ha pescato Bridges. Poi certo, ha dovuto prendere Chris Paul per essere dove è, ma con un’idea.

Domanda secca: quest’anno come finisce? 

A Ovest è un terno al lotto tra Phoenix e Golden State. La prima è molto decisa e migliorata, gioca con la voglia di rivalsa dopo la finale persa lo scorso anno. Per dirla all’americana, con la “chip on the shoulder”. L’altra è sempre lì. Vedo una finale di conference che va a gara-7 o verrà decisa da un dettaglio, un fischio, un infortunio, una caviglia che si gira, una giocata, una palla persa. A Est, invece, vedo la vincente tra Boston e Milwaukee superiore a Miami/Philadelphia. Sempre che non si ammazzino troppo a livello fisico. E poi la finale fa storia a sè: quando ci arrivi per la prima volta psicologicamente rischi di pagarla come già successo in passato ad esempio a Orlando nel 2009 contro i Lakers o ai Cavs di LeBron nel 2007 con gli Spurs.

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