Prosegue il nostro viaggio attraverso le copertine o i vinili in grado di coinvolgere i cinque sensi di cui siamo dotati. Dopo udito e olfatto è la volta del tatto.
La celebre frase “piacere a pelle” potrebbe sembrare inadeguata se applicata ad un prodotto discografico, nei confronti del quale parrebbe più appropriato un “piacere al primo ascolto”, eppure chi non ha mai provato il piacere derivante dai materiali (i più disparati) utilizzati per la realizzazione dell’artwork di alcune confezioni si è certamente perso una preziosa chance.
Se nella seconda metà dei ’60 le copertine ricoperte da una pellicola lucida (le cosiddette laminated covers) erano parecchio diffuse, oltre che apprezzate, con l’arrivo del decennio successivo si assiste a una sensibilità nuova nei confronti delle scelte riguardanti la carta utilizzata per la loro realizzazione, in diversi casi sorta di scelta coerente col contenuto “rurale” della musica contenuta nel disco; al proposito casi significativi sono rappresentati dalle buste di “Harvest” di Neil Young,
“John Barleycorn must die” dei Traffic
o “Desperado” e “One of these nights” degli Eagles, quest’ultimo impreziosito ulteriormente dal disegno in rilievo.
L’uso di particolari formati di cartone è servito per dare alle nostre dita la sensazione di avere fra le mani materiali quali il denim, vedi “Ride’em cowboy” di Paul Davies
o “Deja vu” debutto discografico del supergruppo Crosby, Stills, Nash and Young. La storia dietro la copertina di quest’ultimo è decisamente interessante: l’attesa per l’album era talmente alta che la Atlantic raccolse la ragguardevole somma di 2 milioni di dollari solamente con le prenotazioni.
L’artwork fu affidato alla rodatissima coppia GaryBurden/Henry Diltz che, pensando alla grande, realizzò una copertina che al tatto ricordasse il cuoio grazie ad un particolare tipo di carta realizzata da una piccola cartiera a gestione familiare della Georgia. Non bastasse, il lettering era in rilievo e dorato grazie ad una speciale lamina, mentre la fotografia del gruppo non era stampata, bensì incollata sulla copertina stessa. Risultato splendido, un piacere per gli occhi e per le mani, non condiviso però da Jerry Wexler, boss dell’etichetta Atlantic. Infatti, mentre il costo medio di una copertina all’epoca si aggirava intorno ai 19 centesimi di dollaro alla copia, quella progettata da Burden arrivava a ben 69 cents!
Alla vista dei costo Wexler sbottò: ”Fanculo alla soddisfazione degli artisti! Potremmo metter fuori questo disco con una semplice busta marrone e lo venderemmo comunque!”. Alla fine il disco uscì con l’artwork previsto, ma con la promessa che le successive ristampe non avrebbero più rispettato quelle costose caratteristiche.
Nulla si sa circa il parere della Polydor a proposito della copertina di “Odessa” dei Bee Gees, anche se è da supporre che abbiano apprezzato l’idea di una copertina realizzata con un fiammante velluto rosso, apripista di una lunga serie di copertine caratterizzate dall’utilizzo di diversi tipi di tessuto.
“Made in England” degli Atomic Rooster è ospitato in una busta in tessuto di jeans, blue per la maggior parte delle edizioni ma con le eccezioni rappresentate dal giallo, beige e verde di alcune stampe tedesche, dal “dark blue” brasiliano, dal viola inglese e dal rosso australiano.
La juta è utilizzata per le buste di “Baal Brecht Brueker” del trio olandese Baal, Brecht & Breuker, per quella di “Άνθρωπε…” dei greci Poll così come per “Soul Food” degli svizzeri Lazy Poker Blues Band,
mentre è stata fonte di ispirazione per l’artwork di “Rastaman Vibration” l’album targato 1976 di Bob Marley & the Wailers.
Alla sua trama si ispirò infatti il grafico e fotografo Neville Garrick che cercò un cartone ruvido da ricordarla al tocco, aggiungendo poi quello che solo ai più frettolosi parve un bizzaro quanto incomprensibile dettaglio. Il bordo interno della copertina apribile infatti risultava essere, nelle prime edizioni, in rilievo; la spiegazione sta nella scritta verticale vergata in basso a destra che candidamente recita: “Questa copertina è ottima per pulire l’erba”.
Dalle “buone vibrazioni” giamaicane si può passare a qualcosa di altrettanto calzante se si pensa alla copertina in pelle (sintetica ovviamente) nella quale sono infilati i due Lp che costituiscono l’edizione limitata della raccolta “No Remorse” dei Motorhead, padri putativi di quel filone della musica rock comunemente chiamato “Metal”,
termine che porta la memoria a quei lavori discografici alloggiati in scatole di metallo. Al 1969 risale la tripla compilation “Electric Blues” pubblicata in Germania dalla Chess Records
seguita l’anno successivo da “Fresh from the can” sorta di sampler dei propri artisti di punta pensata dalla Polydor.
La trovata del contenitore in metallo verrà ripresa nove anni più tardi dai P.I.L. di Johnny Rotten per il loro “Metal Box”, così come nel 1989 dai Fine Young Cannibals per la limited edition di “The raw & the cooked”.
Il cantautore bresciano Alessandro Ducoli penserà invece ad una deliziosa scatola di legno per l’album “I sigari fanno male”, ad oggi ultimo lavoro del suo progetto The Bartolino’s.
Due ultimi esempi “graffianti” in chiusura, a partire dai tedeschi Twist Noir col loro “Untitled”, 10 pollici stampato in sole 350 copie con i suoi indimenticabili frammenti di vetro incollati sulla copertina.
Il secondo ci porta dritti al Punk, non solo un genere musicale quanto anche filosofia veloce, inafferrabile, sovversiva e rivoluzionaria, capace di spiazzare musicalmente quanto graficamente.
Come non citare allora, fra le tante, la copertina più punk di tutte, se non temporalmente quanto meno filosoficamente, vale a dire quella di “The return of Durutti Column”, album di debutto della band di Manchester The Durutti Column, le cui prime 3.600 copie, assemblate pazientemente dai membri della band e dai compagni di scuderia A Certain Ratio e Joy Division, furono realizzate con la busta in carta vetrata. Sul fronte copertina semplicemente il numero di catalogo del disco in spray nero.
Come potete facilmente immaginare disco impossibile da esporre negli scaffali dei negozi, pena la rovina delle altre copertine che vi fossero entrate in contatto; idea di una semplicità “diabolica”, rappresentativa di un momento in cui provocazione, genialità e creatività ritrovavano finalmente il loro vero significato.
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