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L'analisi

La Giustizia riparatoria non è un vestito per tutte le stagioni

Il dolore massimo che proviene dalla guerra, ma anche quello minore della carcerazione: riflessioni sul concetto di contenzione ritenuta rieducativa e due nuove possibilità, alternative alla carcerazione, per risolve il problema di come unire condanna penale e attività risarcitoria

Può certamente apparire dissonante avvinare la situazione tragica della guerra in Ucraina, con la situazione carceraria odierna in Italia. Noi, europei, ritenevamo di essere esonerati dalla possibilità che una nuova guerra potesse accadere fuori casa, dimenticando la saggezza che afferma che Dio ha dato all’uomo la lingua per parlare e le mani per lavorare, non per fare guerre o commettere delitti. Pertanto cerco di provare ad accomunare il dolore di una guerra, a quello del “pianeta carcere “ e della sua attuale situazione.

Il carcere, nella sua doppia forma di detentivo o di misure alternativa, ha la capacità di creare dolore e non trovare la soluzione per fermarlo, credendo di poter far nascere e riconoscere altri doveri ai quali il detenuto era mancato.

Eppure saper riconoscere il dolore, seppure in forme diverse, rappresenta la prima forma per far cessare il dolore stesso, e questo vale per lo stato di guerra ma anche a una detenzione, che non risponde a principi di umanità, ma al fattore puramente funzionale di detenere.
Abbiamo il dolore massimo che proviene dalla guerra, ma anche quello ritenuto minore, dalla carcerazione imposta oltre i tempi e i modi voluti; emerge sempre il concetto di una umana contenzione ritenuta rieducativa ma che cancella il come essere in carcere o in misura alternativa.

Tutto questo dolore minore impone di fare i conti con una serie di idee che, nonostante si siano rivelate sbagliate, continuano a condizionare le decisioni politiche e a essere ripetute acriticamente da mass media e da diversi ministeri.

È un dolore che, purtroppo, non riesce a far ricordare che il compito dei tecnici dell’ Amministrazione Penitenziaria, dovrebbe essere quello di ponderare come attuare un chiaro mandato costituzionale, che è ben lungi dal considerare le persone in funzione di un astratto concetto di rieducazione, a cui per giunta si può applicare il vecchio detto sull’Araba Fenice: “che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”, esprimendo ipotesi di soluzione ma non la soluzione.

La pena da scontarsi è di per sé un momento certamente afflittivo, ma tale da non essere abbandonati al caso o all’assioma “….ma tanto che si può fare?”
Già tra gli studiosi giuridici penali dell’800 ricorreva la considerazione che in carcere “le piccole pene offendono le grosse pene”: se il problema è noto almeno da due secoli, perché coloro che sono a bassa pena continuano a permanere in carcere, quando vi sono varie possibilità normative che prevedono di come liberarli, svincolando così un posto in carcere? Risposta semplice: perché pur avendo i presupposti oggettivi per lasciare il posto letto in carcere, un detenuto non ha spesso quelli soggettivi di avere un letto ed un tetto fuori dal carcere.

Nei tempi addietro si sarebbe ricorsi all’applicazione dei benefici regi dell’indulto a termine basso e di una amnistia temperata sui crimini ritenuti non di alta criminalità. Nel decennio 80/90 del secolo scorso il governo non si era lesinato nello attuarli, sulla spinta dalla necessità di liberare posti letto in carcere.
Ora ci sono i provvedimenti trattamentali come le misure alternative che parrebbe logico venissero applicate.
Ma queste hanno come presupposto due elementi: quello oggettivo, con la soluzione per i detenuti a residuo pena breve, e quello soggettivo del dove possano andare essendo sostanzialmente privi di risorse.
Quindi per essere legali, si diventa costituzionalmente scorretti, penalizzando i privi di risorse personali o mentali ed economiche, in sintesi senza possibilità di accoglienza esterna: per loro il carcere è la casa rifugio, unico posto dove possono vivere, il carcere che diventa soluzione e risorsa, in una soluzione inaccettabile.

A sanare questa inaccettabile anticostituzionalità di garantire pari diritti tra chi ha opportunità esterne e chi ne è privo, in quanto povero, una possibile soluzione fu da me proposta ed attuata(seppur modificata): che le ultime due concessioni di liberazione anticipata anziché di 20 giorni semestrali, passassero a 180, senza nessun obbligo, “morale” come ad esempio, lo svolgere una attività socialmente utile. Se a questo provvedimento eccezionale si lega il buon comportamento tenuto in carcere, agli elementi funzionali tipici dell’indulto, si inserisce il buon comportamento, che ha per oggetto il merito.
Il concetto di merito ritorna come provvedimento clemenziale, con aumento momentaneo della liberazione anticipata senza obblighi, fatto questo che se non trova spazio nella norma, riecheggia negli aspetti rieducativi della legge 354/75 e nel diritto costituzionale della eguaglianza tra chi ha risorse e che ne è privo.

Questa proposta si lega a un concetto di merito, e questo merito si collega, a sua volta a quello di dono: ma questo è valido se non vincolato a un dover fare, a un dover attivarsi con una attività risarcitoria, per chi è sprovvisto di mezzi che rendono non attuabile una misura alternativa, se richiesta. Questa penalità appare una scriminante verso un povero che mai potrà attuare una attività a favore di altri quando è lui stesso bisognoso di aiuto.

L’attività risarcitoria, formula coniata dai terroristi e che elaborammo negli anni 80 con un progetto di intervento nel sociale, ma durante il periodo detentivo e in full time, è oggi considerata la soluzione migliore per compensare sia la non detenzione che per riconciliare il reo con la società offesa dal suo reato.
Questa importante modalità punitiva/riparatoria non è un vestito valido per tutte le stagioni, da applicare a tutti e in tutte le situazioni, ma deve avere una diversificata applicazione in base al reato commesso e alle capacità/possibilità soggettive del singolo istante.
Pertanto appare opportuno aggiungere alla misura a cui si vuole aggregare l’azione risarcitoria, un valenza maggiormente soggettiva, che corrisponde ad una quantificazione della sofferenza arrecata col reato, corrispondenti a due modalità risarcitorie. La prima è l’attuale messa alla prova con una attività risarcitoria immediata e costante, come devolvere parte o tutto dello stipendio o del proprio patrimonio personale, la seconda è una messa al lavoro socialmente utile a tempo pieno, dove all’attività risarcitoria si evolve in una azione riparatoria per meglio comprendere la sofferenza arrecata col reato.

Al giudice del giudizio venga data la possibilità, tipica del giudicare, di stabilire i parametri minimi e massimi lasciando alla sua discrezionalità, peculiare del suo mandato, il quantum.
La formalizzazione di queste due nuove possibilità alternative alla carcerazione, peraltro prevalenti nella loro concessione alle misure alternative, come la due fattispecie di messa alla prova, risolve il problema di unire la condanna penale e attività risarcitoria, fermo restando che lo scopo da perseguire non deve essere quello puramente deflattivo. Ci si trova così ad eliminare procedimenti per i reati meno gravi, risparmiando la celebrazione di dibattimenti “costosi” in termini di tempo e risorse (infatti, la messa alla prova si può chiedere solo prima della dichiarazione di apertura del dibattimento), ed anche ad anticipare l’esecuzione penale, sostituendo le pene detentive con le attività trattamentali e socialmente utili, fatto che renderebbe attuale la commissione del reato alla punizione, ed aumenterebbe la possibilità di non reiterare il reato.

Dubito che lo scopo deflattivo possa essere raggiunto, perché la limitazione della messa alla prova ai soli reati meno gravi rende poco “appetibile” l’istituto, specie se si va ad applicarsi alle persone detenute, sua naturale applicazione, come avvenne coi terroristi dissociati.
Inoltre, le attività processuali previste per l’applicazione dell’istituto non sono di poco conto e dunque non rappresentato un “risparmio” di lavoro per gli oberati uffici giudiziari penali.

Penso che occorra mettere alla prova la messa alla prova; l’adozione della messa alla prova rappresenta una scommessa importante, che prova a valorizzare i temi della mediazione penale e della giustizia riparativa, anche per dimostrare che il sistema penale italiano può funzionare anche oltre il binomio accertamento della responsabilità-sanzione detentiva. Inoltre, essendo il lavoro socialmente utile una attività non retribuita, e forse poco interiorizzata, il principio riparatorio, per diventare “appetibile”, potrebbe essere applicato ad un anticipo del fine pena con un numero più altro di detrazione dei giorni di carcere.

Affinché queste possibilità della messa alla prova e messa al lavoro socialmente utile, quali espiazione del reato che attuano in contemporanea il processo di reinserimento, si realizzino, è necessario che le verifiche di rito, almeno quelle formali, vengano attuate da forze dell’ordine maggiormente presenti sul territorio come i Carabinieri, ai quali si chiede una specializzazione specifica a cui potrebbero accede anche appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria.

Termino queste considerazioni, nel condannare una guerra e tutte le atrocità che porta con se, invitando a considerare, come si fa con i profughi, un atto di generosità verso i detenuti poveri; non diventiamo per questo promotori di una scarcerazione che ha in sé tutto il potenziale per il rientro a breve di queste persone in carcere, non avendo adempiuto all’obbligo di dare aiuto agli altri. Rientro dovuto soprattutto al fatto che non hanno ottenuto loro l’aiuto per reinserirsi.

*Antonio Nastasio è un ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza

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