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L’intervista

Roberto Valentino, nello staff di Bergamo Jazz dal ’93: “Dietro il successo c’è un team affiatato”

“È la squadra che lavora un anno intero per regalare a 5.000 persone quattro giorni di musica, studiati nel minimo dettaglio, dalle proposte alle location”

Bergamo. Il suo primo concerto jazz l’ha visto a sedici anni. Al teatro Donizetti. Sul palco  Gerry Mulligan, il leggendario sassofonista statunitense, tra i fondatori del cool jazz.

È iniziata così, nel 1972, la lunga avventura di Roberto Valentino con Bergamo Jazz, il “festival del cuore”.

Cinquant’anni dopo, quel “ragazzo” è sul palco. Insieme a Maria Pia De Vito, direttrice artistica, saluta il pubblico della 43esima edizione del festival, andata in scena dal 17 al 20 marzo.

Quattro giorni di musica, disseminati per la città, e oltre cinquemila spettatori. Un risultato per nulla scontato nel nostro presente, minacciato da una pandemia ancora in corso e da un conflitto del quale è difficile capirne il senso.

“Le persone hanno bisogno di continuare a vivere”, dice Roberto Valentino, addetto alla comunicazione e assistente alla direzione artistica.

Il successo del festival è fatto sicuramente dalla musica, dai grandi nomi (come Fred Hersch, Enrico Rava, Brad Mehldau, Gonzalo Rubalcaba e Aymée Nuviola) e dai nuovi. Ma è reso possibile soprattutto dalle persone che non vediamo sul palco, ma che vivono per e con il teatro.

È la squadra che lavora un anno intero per regalare a cinquemila persone quattro giorni di musica, perfettamente studiati nel minimo dettaglio, dalle proposte alle location.

Allora, cosa prova oggi, a bocce ferme e sipario calato?

Soddisfazione e felicità sono naturali in questo caso: siamo riusciti a compiere un’impresa. Dalla nomina di Maria Pia De Vito alla direzione artistica è successo di tutto. Prima la pandemia, che non è ancora finita, e poi la guerra in Ucraina. Pur immersi nella gioia della musica, il nostro pensiero è rivolto a queste difficoltà. Come dico sempre, la musica non cambierà il mondo, ma può sicuramente migliorarlo. Il successo di Bergamo Jazz non era scontato, vista la situazione, ma è arrivato ugualmente. Tutta la squadra di Bergamo Jazz è felice. Se si ottengono dei risultati così importanti è perché c’è un team che lavora bene. Sono orgoglioso di farne parte.

 

rubalcaba nuviola bergamo jazz 2022 (foto Giorgia Corti)

 

L’edizione 2022 è stata infatti la prima ufficiale e completa con De Vito alla direzione artistica.

Spero che lei continui ancora per qualche anno a ricoprire questo ruolo. È una persona sensibile che ha capito la vera essenza di Bergamo Jazz: un festival con delle peculiarità per quanto riguarda il pubblico e le location.

Peculiarità che lei, Roberto, conosce benissimo.

Mi sono avvicinato al jazz grazie a questo festival moltissimi anni fa. Lavoro all’interno della rassegna da quasi trenta lune. Ora sono in grado di dare delle indicazioni concrete e verificate per poter disegnare un programma artistico consono, nel solco della tradizione del festival e del suo prestigio. Ed è questo il mio compito principale da assistente alla direzione artistica: supportare Maria Pia nel prendere decisioni artistiche giuste per la rassegna.

Già prima dell’inizio, molti concerti di Bergamo Jazz hanno registrato sold-out. Ve lo aspettavate?

L’aspetto più interessante è che di alcuni concerti sapevamo che avremmo avuto sold-out, ma di altri no. Eppure, tutti i biglietti sono stati venduti oltre ogni previsione. Probabilmente la gente ha voglia di tornare a vivere. È da diverso tempo che le proposte della Fondazione Teatro Donizetti, dalla prosa, alla lirica, al jazz, stanno collezionando approvazione da parte del pubblico.

Come nasce la sua storia con Bergamo Jazz?

Come spettatore nasce nel 1972. All’epoca si chiamava “Rassegna internazionale del jazz”. Nel 1993 sono diventato ufficialmente membro dello staff. Ho provato una grandissima emozione nel salire sul palco del Donizetti insieme alla direttrice in occasione dell’ultimo concerto dell’edizione appena terminata. Per lavoro ho avuto modo di seguire tanti eventi musicali, come giornalista e addetto stampa, ma Bergamo Jazz è per me il festival del cuore.

 

Bergamo Jazz Festival

 

Cosa ricorda di quel concerto del 1972?

Avevo sedici anni. Stavo in piccionaia con un amico di cui non ricordo più il nome, ma ricordo benissimo chi suonava sul palco: Gerry Mulligan.

Quali altri concerti di Bergamo Jazz rimangono nel suo cuore?

Un concerto che ha lasciato un segno indelebile in me è stato quello dell’Art Ensemble of Chicago. Era il 20 marzo 1974. Ho avuto la fortuna di fare una registrazione artigianale di quel concerto, che ho poi trasferito su cd. La ascolto spesso. Dopo quasi cinquant’anni l’impatto sonoro è ancora straordinario.

Trent’anni di storia insieme a Bergamo Jazz equivalgono a infinite avventure. Ci racconta qualche aneddoto?

Ce ne sono tanti. Sono stati bellissimi i quattro anni con Enrico Rava come direttore artistico perchè Enrico è la storia del jazz. Lavorare con lui significa toccare con mano la storia e l’attualità del jazz. Quando facevamo le conferenze stampa insieme io sudavo un pochino perchè non sempre si ricordava tutte le cose. Dovevo stare sempre in campana, ma anche per questo era divertente lavorare con lui.

Il festival è fatto anche dalle stelle, gli artisti. Ci sono stati incontri che hanno segnato la sua carriera?

Quello con Gato Barbieri, che è stato il mito della mia giovinezza. Quando venne a Bergamo, il direttore di Musica Jazz, rivista per cui collaboravo all’epoca, mi chiese di intervistarlo. Non era un momento facile per l’artista: aveva appena perso la moglie e subito un intervento. Era totalmente restio a concedermi l’intervista e in tutta onestà temevo per la riuscita del suo concerto. In realtà riuscì a stupirmi anche quella volta: alle prove il suono del suo sax era avvolgente. Allora mi dissi: “Ma quest’uomo è ancora Gato Barbieri!”. E così una mattina ci incontrammo per l’intervista: fu un momento bellissimo.

Lei che è un grande esperto, non ha mai provato a fare musica?

Ci ho provato, ma poi ho abbandonato quella strada. Il mio interesse per la musica è nato da una grande passione, prima per il rock e poi per il jazz. Mi ritengo un ascoltatore attento ma soprattutto curioso, questo è fondamentale. Non bisogna mai limitarsi. Al contrario, è importante spaziare negli ascolti. Da questo punto di vista il jazz è una musica che offre grandissime opportunità per soddisfare la curiosità. Bergamo Jazz è sempre stato una finestra aperta sul mondo jazzistico. Era così nel 1969 e lo è ancora adesso. Credo fermamente che debba continuare ad esserlo.

enrico rava e fred hersh

 

Quanto tempo dedica all’ascolto e alla scoperta di nuova musica?

Quando non sono in teatro per lavoro, ogni sera ascolto tra le tre e le quattro ore di musica. Di solito abbino la musica alla lettura di un libro che è collegato a quanto sto ascoltando per tematiche o per mood. Con gli anni ho collezionato migliaia di dischi e vinili, che mi occupano tutto lo studio.

Quanto lavoro richiede l’organizzazione di un festival come Bergamo Jazz?

Serve un anno di lavoro circa. Bisogna verificare che i musicisti siano disponibili, vagliare le tante proposte che arrivano dalle agenzie o dagli stessi artisti. Per fare tutto questo serve una squadra: chi gestisce la parte artistica, chi quella organizzativa e logistica. Tutti insieme concorrono alla riuscita della manifestazione.

Qual è stato il momento più emozionante della quarantatreesima edizione di Bergamo Jazz?

Quando Maria Pia De Vito è salita sul palco del Donizetti, invitata da Gonzalo Rubalcaba e Aymée Nuviola nel concerto di chiusura. Insieme hanno cantato “Quando, quando, quando” di Pino Daniele. È stato bellissimo.

Che futuro vede per il festival?

Spero che si possa andare avanti sulla strada tracciata. Bergamo Jazz è nato come un festival internazionale e dovrà continuare ad esserlo, attirando pubblico da tutta Italia e anche dal mondo. Quest’anno, oltre i trenta giornalisti accreditati, tra cui un inviato newyorkese della celebre rivista DownBeat, abbiamo avuto pubblico arrivato dall’altra parte del mondo. Ad esempio, ho avuto modo di conoscere un ragazzo di 24 anni, appassionato di chitarra. È arrivato dall’Australia per assistere a Bergamo Jazz.

Qual è, secondo lei, il futuro del jazz?

Il futuro del jazz è anche il suo presente. C’è una ramificazione notevole di questa musica. Sono tante le strade percorse dai grandi maestri, i pochi rimasti, e dai giovani, che sanno fare musica interessante e hanno una preparazione considerevole.

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