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Vita vera

“Sono un papà-nonno e no, non è un ossimoro”

Nel giorno della festa del papà Piero Bonicelli, direttore di Araberara, racconta la propria esperienza

Nel giorno della festa del papà Piero Bonicelli, direttore di Araberara, racconta la propria esperienza di papà-nonno. 

Sono un “nonno-padre” e non è un ossimoro.

“Vai a prendere il nipotino?”. Il ragazzone (non so attribuirgli un’età) di colore sbarca il lunario aiutando la gente a parcheggiare, fuori dal grande ospedale. Ha il sorriso di chi spera ci scappi almeno una mancia, in fondo quando sono arrivato mi ha fatto grandi segnali per un parcheggio disponibile, in realtà ce ne sono almeno una decina liberi, ma vuol rendersi utile, della serie, non chiedo elemosina, chiedo un compenso, anche modesto. Traffico col cestone per neonati e dai movimenti devo sembrargli appunto un nonno. “No, vado a prendere mio figlio”. Il giovane tira indietro la testa come immagino (immagino) faccia uno che si trovi di fronte una bestia rara, perché per quelle feroci credo se la sarebbe data a gambe levate.

Il giorno prima in camera era entrata un’infermiera o forse solo un’inserviente, non ho imparato a distinguere i colori dei camici che indossano. “Fuori tutti i parenti tranne i papà”. Se ne vanno tutti, ho la disavventura di restare solo, lì ai piedi del letto dove mio figlio è in braccio alla sua mamma. Tea se lo coccola.

L’infermiera mi guarda: “Ho detto fuori tutti, anche i nonni!”. Dai sono soddisfazioni… “Appunto, io sono un papà”. È la prima volta che lo dico e nel dirlo mi rendo conto di quello che è cambiato, il mio status, la mia vita, oddio, sono papà, a sessant’anni suonati sono diventato papà!

Uno non ci pensa. Era la sera del 30 gennaio quando a Tea si sono “rotte le acque”. Quando si è giovani sono espressioni ricorrenti, tra scapoli e ammogliati, prima dello scontro annuale, ci si scambiavano esperienze e gli scapoli (quorum ego) vantavano vite di libertà perdute (per gli ammogliati) e non solo sessuali. Poi sugli spalti c’erano i bambini che incitavano e applaudivano i loro papà, a noi nessuno batteva le mani, tifavano tutti per loro.

Ci sentivamo un po’ orfani, figli di nessuno.

E quando si tornava a casa ci si sentiva un po’ più soli, va bene il lavoro, altro cui pensare e penare che cambiare i pannolini e sentire uno che strilla tutta la notte, vuoi mettere stare in giro tutta notte, si gira, si gira… già, ma non ci si incontra mai.

Era il 2006, un anno grandioso, di lì a poco avremmo vinto i mondiali di calcio. E Mattia è nato il 31 gennaio.

Il nome lo abbiamo scelto frugando nei ricordi biblici. San Mattia è il tredicesimo apostolo, quello che sostituisce Giuda che si è impiccato, arriva tardi, ma ha conosciuto e seguito Gesù.

Ma è sul quel “tardi” che c’è affinità. A 60 anni si è nell’età in cui si studia da nonni, si diventa più tolleranti, meno rigidi, le grandi utopie per cui si era disposti a giocarci se non la vita almeno la carriera, si sono sciolte come neve di marzo, certe delusioni stemperano le animosità. Uno dice, verso il tramonto si va di fretta. È il contrario, ci si gode ogni momento, hic e nunc, ne quid nimis, carpe diem, insomma il repertorio liceale oraziano diventa filosofia di vita.

I figli crescono e le mamme imbiancano. No, adesso le mamme non imbiancano per niente, tanto più quando hanno quasi trent’anni di meno, sei tu, sono io che sono imbiancato, se l’animo è diventato più malleabile, sono le articolazioni a farsi più rigide.

Mattia si è goduto il papà-nonno, forse imbarazzato (ma non l’ha mai dato a vedere) certi giorni che l’ho aspettato fuori da scuola, i pochi papà che venivano a prendere i loro pargoli potevano essere miei figli.

Un giorno una signora mi si è avvicinata, “lei è stato mio insegnante alle medie”. L’ho guardata ma non sono riuscito a riconoscerla, noi li si vedeva da ragazzi, adesso sono uomini e donne adulti. “È qui ad aspettare il nipotino?”. Eh, no (ma questa volta sono stato gentile) ho sorriso, “no, sono qui ad aspettare mio figlio”. Mi ha guardato come l’avessi tradita, come non fossi restato quello che lei immaginava restassi, della serie “di figli ne ho a decine a scuola, mancherebbe di averli anche a casa…”.

Quante volte ce lo siamo detti, in sala professori, sentendoci come missionari, come il celibato per i preti, una missione per gli altri.

In realtà manca (anche ai preti) l’esperienza famigliare, predicano su cose che non conoscono, avere una famiglia, un figlio, ti aiuta a capire le altre famiglie, i loro ragazzi e ragazze.

Un giorno parlando con Sergio Cofferati, sì, il sindacalista/politico, abbiamo scoperto di avere avuto la stessa esperienza di paternità tardiva e invece di parlare di politica abbiamo parlato di Gormiti e di Ben Ten (Mattia era per quest’ultimo) con analisi che non portavano a niente ma ci siamo sentiti in sintonia, nemmeno ci conoscessimo da una vita.

Poi è cominciato lo scontro generazionale.

Macchè, non ci sono più gli scontri di una volta, quando i figli, diventati grandi, affrontavano a muso duro i loro padri.

Il nostro tempo era il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale. La prima televisione che mio padre seguiva già un po’ annebbiato dalla stanchezza e dal sonno e noi a spiegargli che quelli lì stavano a Roma, distante seicento chilometri ma noi li vedevamo mentre parlavano. “Ma anche loro ci sentono?”. No, ma avevamo l’esclusiva che consisteva al tempo nell’accensione e spegnimento, c’era un solo canale. E quella volta che a mio zio fecero lo scherzo di farlo parlare del più e del meno e poi, zacchete, il nastro tornava indietro con un fruscio e si risentiva quello che si era detto.

Tagliati fuori, pensavamo. E adesso lo pensano anche i ragazzi di oggi, dalla civiltà industriale a quella “digitale”, tutt’un altro mondo che noi non capiamo e vai col pippone che il passato è la base per capire il presente e forse perfino il futuro ecc. e loro che con i loro smartphone dove sentono, trovano tutto, tu ti lasci andare una mattina a canticchiare una vecchia canzone e loro te la fanno risentire “tale e quale”.

Un figlio ti fa stare al passo, guai a segnare il passo, lui è già più avanti. I vecchi di un tempo ti dicevano cosa fare in certe situazioni, ci erano già passati. In queste nuove situazioni noi non ci siamo mai passati, perfino la scuola non è più quella di una volta, adesso puntano sulle competenze, poco sulle conoscenze, anche nello sport ci sono i nuovi campioni, devi stare sul pezzo, nuovi sport, nuovi giochi, la playstation, gli sms sintetici con le faccine, il rap che a me sembrano filastrocche senza melodia ma per loro è il nuovo e sanno distinguere tra il “commerciale” e l’autentico, perfino la politica può essere scontro e a me torna in mente una canzone di Claudio Lolli, “Vecchia piccola borghesia” che a un certo punto fa “Di disgrazie puoi averne tante, per esempio una figlia artista / oppure un figlio non commerciante, o peggio ancora uno comunista”.

Non gli scegli il futuro, tanto meno di continuità, non gli scegli il lavoro, sanno che devono inventarselo. Del resto non lo faresti, ti ricordi all’improvviso di quando tuo padre aveva le mucche in stalla e il fieno sul campo e i figli o studiavano o lavoravano giù in città. Si rassegnò a vendere tutto, noi ci eravamo fatti un’altra vita.

Quello che fatichi a sopportare è che tifi per un’altra squadra… Ma sono quisquilie.

Io sono invecchiato e Mattia mi ha tenuto al passo con i tempi. Che non sono né più belli né più brutti, mica possiamo rimpiangere il dopoguerra, la fatica di nostra madre a mettere in tavola qualcosa da mangiare, mio padre che tornava dalla miniera il venerdì sera, stanco morto, e c’era la stalla e c’erano sempre guai. “A s’erum ona banda de ses fieou / Volevom trà per aria tutt’el mond” (Jannacci).

Noi eravamo “solo” in cinque, con un cortile affollato. Mattia ha i suoi amici nel cortile “virtuale” dei tempi moderni.

E odia l’ipocrisia. E ha il suo mondo, nel quale adesso fatico e entrare, pur maneggiando anch’io tutti i nuovi strumenti elettronici, perché almeno sui “mezzi” non sono mai stato passatista, tutto il nuovo che facilita la comunicazione e la conoscenza è il benvenuto. Magari adesso c’è da scegliere tra il molto, noi ci si accontentava del poco o niente.

Sono passato dal pennino e calamaio, alla stilografica, alla biro, alla macchina per scrivere, al computer e adesso allo smartphone. Tea ci riesce già meglio, ma anche lei con qualche affanno.

È il nuovo mondo dove scoppiano epidemie (e questa non ce l’aspettavamo proprio: e i ragazzi sono stati i più penalizzati, li abbiamo bloccati per due anni) e guerre (e queste nel “secolo breve” non sono mancate ai nostri padri e nonni). Ma sono più informati di noi.

Va be’ gente, sono un nonno-padre. E visto che lo sono, non è più un ossimoro. Mai stato così felice di esserlo.

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