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Il discorso

Gori: “Il Bosco della Memoria, dedicato alle 7.250 vittime bergamasche del Covid”

Le parole del sindaco in occasione della commemorazione del 18 marzo: "Nella piccola storia della nostra comunità resterà una cicatrice, a ricordarci chi abbiamo perso, chi abbiamo salvato, la paura che abbiamo provato e la speranza che abbiamo visto rinascere"

Pubblichiamo, qui di seguito, il discorso che il sindaco di Bergamo Giorgio Gori (positivo al Covid e quindi impossibilitato a partecipare fisicamente) ha preparato in occasione della giornata nazionale alla memoria delle vittime del Covid, a due anni dal passaggio dei camion militari che portavano via le bare con i morti.

Signor Presidente della Camera, Autorità, Care cittadine e cittadini bergamaschi,

queste le parole che il Sindaco Giorgio Gori – cui rinnovo i nostri migliori auguri di una pronta guarigione – ha preparato per Voi e che Vi rivolge mio tramite.

In questa giornata dedicata alla commemorazione delle vittime del Covid – a due anni dall’inizio della pandemia – ci ritroviamo nel luogo in cui abbiamo scelto di far crescere un Bosco, il Bosco della Memoria, come opera viva, a perenne ricordo delle migliaia di donne e uomini della nostra terra che hanno perso la vita a causa del virus.

Fu la prima ondata, nei mesi di marzo e aprile del 2020, a mietere la maggior parte delle vittime a Bergamo e nella sua provincia, mentre fortunatamente – grazie anche all’altissima partecipazione dei cittadini alla campagna vaccinale – in tutte le successive ondate la curva epidemiologica è rimasta qui più bassa che nel resto d’Italia. Credo abbia contribuito anche la consapevolezza circa i rischi del contagio, purtroppo acquisita ad un prezzo altissimo.

“Ne siamo quasi fuori”, ci siamo detti più volte in questi due anni, ogni volta riponendo in queste parole la nostra speranza di riguadagnare, finalmente, la libertà di comportamenti che abbiamo dovuto sacrificare a causa della pandemia; e ogni volta era certamente più vero, che ne fossimo “quasi fuori”, grazie innanzitutto ai vaccini. E tuttavia non è ancora del tutto e definitivamente vero, come ci dicono i dati degli ultimi giorni, e dobbiamo dunque rimandare il momento del sollievo e mantenere vive le cautele.

Ripercorrere questi due anni significa innanzitutto ricordare le tante persone care che abbiamo perduto a causa dell’epidemia, 7.250 complessivamente nella provincia di Bergamo in base ai rilevamenti dell’Istat, di cui però solo 4mila “ufficiali”, a sottolineare ancora una volta la distanza tra le statistiche che derivano dalle diagnosi effettuate attraverso i tamponi – per lungo tempo insufficienti – e la triste realtà dei fatti.

A loro è dedicato il Bosco della Memoria, che intorno a noi vedete ancora in via di allestimento e che proprio oggi – ne parleremo tra poco – si arricchisce di un nuovo importante elemento.
I più erano anziani, donne e uomini di una generazione che il Covid ha decimato, privandoci improvvisamente della loro saggezza e del loro affetto. Ma quanti giovani, pure, sono caduti. A tutti loro va il nostro ricordo commosso.

Ma non solo a loro: il film di questi due anni ci riporta alla mente il lavoro instancabile e coraggioso dei medici, degli infermieri e del personale sanitario, negli ospedali come sul territorio; la solitudine degli ospiti delle case di riposo e di tanti nonni, per mesi privi del conforto di una visita; il disagio dei ragazzi costretti alla didattica a distanza e la fatica dei loro insegnanti; la precarietà economica che ha fatto irruzione nella vita di tante famiglie; le difficoltà delle imprese, gli alti e bassi delle curve epidemiologiche, i diversi colori delle regioni, i DPCM e le ordinanze a disciplinare ogni dettaglio della nostra esistenza sociale – tutto questo.

Ed altro però, ancora: la generosità operosa dei volontari, le tante forme di solidarietà prestata e ricevuta, tra cui quella delle città verso cui andavano i camion militari immortalati dalle immagini a cui dobbiamo questa ricorrenza, il 18 marzo; la forza morale che questa comunità ha mostrato nel momento dell’emergenza più viva, la sua capacità di reazione, il dolore che appena possibile si è trasfigurato in nuova operosità.

Non so dire come tutta questa vicenda sarà letta tra qualche anno, che posto avrà sui libri di storia. Di certo nella piccola storia della nostra comunità resterà una cicatrice, a ricordarci chi abbiamo perso, chi abbiamo salvato, la paura che abbiamo provato e la speranza che abbiamo visto rinascere.

Un anno fa il Presidente Draghi prese in questo luogo un impegno solenne con tutti gli italiani: quello che le persone fragili sarebbero state protette.
Ora possiamo dire che quell’impegno è stato mantenuto.

L’impegno profuso nella campagna vaccinale, accompagnato dall’adesione responsabile della grande maggioranza dei cittadini, ha fatto sì che i nostri genitori, i nostri nonni, potessero finalmente sentirsi al riparo, non più spaventati come si erano a lungo sentiti nei mesi terribili del 2020.

Possiamo riconoscere che il piano vaccinale del Governo e delle Regioni, combinandosi con il Greenpass, ha davvero consentito al nostro Paese di ripartire e a tutti noi di tornare al lavoro e di ritrovare la gran parte delle nostre abitudini, tra cui la possibilità di frequentare i luoghi della cultura. Abbiamo così potuto guardare al futuro con occhi diversi.

Fino a poche settimane fa, prima che dall’estremo limite orientale dell’Europa emergesse una nuova e grave fonte di preoccupazione, abbiamo sperato di metterci alle spalle la sensazione di incertezza e di precarietà che a lungo ci ha accompagnato come un’eco della deflagrazione che avevamo conosciuto nella primavera di due anni or sono.
Oggi è impossibile parlarne senza fare i conti con la guerra. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha bruscamente precipitato il mondo in una diversa ma altrettanto viva situazione di apprensione.

Con enormi differenze, ovviamente, rispetto a ciò che il Covid ha rappresentato. Ma anche con alcune somiglianze, che più volte in questi giorni mi sono venute alla mente.
Così com’era stato per il Coronavirus, condividiamo la sensazione di qualcosa di infinitamente più grande di noi, di un evento che ci sovrasta.
Così com’era accaduto due anni fa, ci sorprende ciò che ritenevamo assolutamente impossibile a realizzarsi: nessuno di noi poteva prevedere che il virus di cui leggevamo in Cina potesse materializzarsi qui – e con quale violenza! – così come 75 anni di pace ci avevano fatto ritenere del tutto inverosimile che i carri armati, i missili e cannoni potessero tornare a violare il suolo del nostro continente: l’impossibile che si realizza.

E infine, ancora, la stessa incertezza che avvolge e rende indistinguibile il futuro: quando ne usciremo, con quali conseguenze.
Certo, non è l’Italia il teatro del conflitto, non siamo noi sotto le bombe, ma il nostro cuore batte insieme a quello dei fratelli e delle sorelle ucraine, ne condividiamo la disperazione e ne ammiriamo il coraggio.

Covid e guerra finiscono così per mescolarsi nei nostri pensieri.
La nuova emergenza tende a mettere quasi in secondo piano i temi sanitari che per due anni hanno monopolizzato le prime pagine dei giornali.
Speriamo che sia per poco, speriamo che la diplomazia apra rapidamente la strada ad un cessate il fuoco, e che deposte le armi sia possibile ricostruire un processo di pace duratura.
Oggi ricordiamo e onoriamo le vittime di un nemico senza volto.
Nel farlo ci è difficile non pensare ad altre vittime, soldati e civili altrettanto innocenti, falciati in queste ore dalle armi di un nemico che invece ha un volto e una precisa responsabilità di fronte alla storia.

A loro va il nostro abbraccio, ai loro cari, con il medesimo affetto che abbiamo riservato ai nostri morti.

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