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Oltre il buio

Patelli e l’inferno Covid a Seriate: “Ho perso mia mamma in quei giorni, ma non potevo lasciare l’ospedale” video

Il primario di Radiologia all’Ospedale di Seriate, ripercorre i momenti più drammatici dell’emergenza sanitaria, con medici e infermieri impegnati senza sosta contro un nemico sconosciuto

Gianluigi Patelli, primario di Radiologia all’Ospedale di Seriate, ripercorre i momenti più drammatici dell’emergenza sanitaria, con medici e infermieri impegnati senza sosta contro un nemico sconosciuto

Cosa ricorda delle ore successive allo scoppio della pandemia?

Beh, mi viene ancora la pelle d’oca a pensarci. Ci siamo trovati a gestire un fenomeno veramente difficile da combattere. Ricordo che una sera mi telefonò Giovanni Licini, insieme a due imprenditori dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà, Beppe Panseri e Claudio Bombardieri. Subito mi chiesero di cosa avessi bisogno e nel giro di due giorni mi sono trovato fuori dalla porta dell’ospedale una tac di fascia molto alta arrivata dall’Olanda. Teniamo presente che ne esistono solo due in Europa e noi abbiamo avuto a disposizione la migliore. Qualcuno definirebbe questo percorso come fortunoso, ma io credo che ci sia stata la Provvidenza ad aiutarci.

Grazie alla tac si è riusciti a curare e a salvare la vita ad un altissimo numero di persone.

Sì, anche perché vivevamo giornate dove arrivava una quantità numerica di pazienti che non poteva essere gestita con le armi di cui disponevamo normalmente. I tamponi non erano sufficienti e il pronto soccorso era letteralmente intasato. La pandemia è per definizione un evento incontrollabile e la situazione che stavamo vivendo richiedeva supporti straordinariamente superiori rispetto alle dotazioni standard. La nostra azienda sanitaria non fa solo attività di routine, ma anche ricerca, tanto che alcune procedure di radiologia interventistica, come l’ablazione della prostata tramite laser, hanno fatto scuola nel mondo.

Durante l’emergenza sanitaria sono state fondamentali le donazioni ricevute.

Esattamente e l’Accademia dello Sport per la Solidarietà ha avuto un ruolo primario, con Giovanni Licini che ha coordinato al meglio l’attività di solidarietà. Ebbene, si è creata una coniugazione perfetta, come due calamite attaccate, che ha permesso di utilizzare istantaneamente le donazioni ricevute, supportando immediatamente gli operatori sanitari e gli ospedali nelle diverse esigenze. Abbiamo parlato della tac, ma in quei giorni sono arrivati anche altri dispositivi indispensabili, come respiratori, caschi Cpap, flussimetri e medicinali come il curaro.

Un encomio va sicuramente a tutti gli operatori sanitari che non hanno mai mollato, salvando ogni giorno numerose vite umane.

Sono stato in ospedale dalla mattina alla sera, dal 24 febbraio e fino a luglio, compresi sabati e domeniche. In tutto questo tempo ho notato come tutti i colleghi abbiano lavorato con il sorriso e senza far pesare la fatica. Devo dire che si è creato uno spirito di squadra che non mi è mai capitato di vedere.

Bergamo in quei giorni ha affrontato per prima questa terribile malattia, facendo anche scuola per la comunità scientifica.

Mi sono subito messo in contatto con il presidente della società di radiologia medica e interventistica, in modo da produrre i risultati delle tac con la pubblicazione dei lavori e le conseguenti collaborazioni scientifiche. A livello operativo, una volta arrivata la tac mobile dall’Olanda, abbiamo creato una chat in Whatsapp con i medici di famiglia sul territorio. Grazie alla veloce diagnosi eravamo infatti in grado di informare sulle condizioni del singolo assistito e decidere se ricoverarlo in ospedale o curarlo a casa. Tutto è stato possibile grazie all’ingrediente vincente della solidarietà.

E, lo ribadiamo, grazie all’impegno profuso senza sosta da medici e infermieri.

A questo proposito ho un ricordo molto personale vissuto durante l’emergenza sanitaria. Mia mamma si è ammalata proprio in quel periodo ed è mancata a causa del Covid. Nei suoi ultimi giorni di vita mancava l’ossigeno ed io ero impegnato per curare decine di malati. Non potendo abbandonare l’ospedale l’ho affidata a Giovanni Licini e, come mi piace ricordare, in questo modo mia mamma ha avuto l’ultimo bicchiere d’acqua e il poco ossigeno rimasto per andarsene serena.

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