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L'intervista

Remuzzi: “La ricerca ha bisogno di merito; enti, ospedali e università aboliscano i concorsi”

Il direttore dell’Istituto Mario Negri traccia una panoramica sul valore e sulle novità della ricerca scientifica ma anche sulle criticità su cui l'Italia dovrebbe lavorare

Nella giornata mondiale delle malattie rare, che ogni anno ricorre il 28 febbraio, il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, invita a porre l’attenzione sulla necessità di promuovere il merito. In modo particolare si concentra sugli enti di ricerca, gli ospedali e le università, sollecitando a cambiare le modalità di accesso al mondo accademico.

La pandemia da Covid-19 ha evidenziato l’importanza della ricerca scientifica e le ricadute che ha sulla vita delle persone: se ne ha avuto la riprova con l’ideazione dei vaccini, che sono stati il risultato di un impegno collettivo di ricercatori di tutto il mondo.

Abbiamo intervistato il professor Remuzzi per tracciare una panoramica sul valore e sulle novità della ricerca scientifica ma anche sulle criticità su cui l’Italia dovrebbe lavorare.

Perché è importante la ricerca scientifica? Che ruolo ha per il presente e il futuro?

Quando svolgiamo le più semplici azioni quotidiane adoperiamo prodotti che sono frutto della ricerca. Li utilizziamo da quando ci alziamo al mattino e prendiamo il caffè a tutte le volte che usiamo un cellulare e ci mettiamo in contatto con gli altri attraverso le nuove tecnologie. Pure le scelte politiche non possono non basarsi su di essa e se ne possono citare infinite applicazioni. Ad esempio, per sapere quali siano i livelli di arsenico consentiti nell’acqua dobbiamo avere a disposizione i risultati di studi che lo attestino e lo stesso discorso vale se volessimo analizzare i dati relativi al traffico di una città. Analogamente, ne abbiamo bisogno per pianificare lo smaltimento dei rifiuti e promuovere il recupero onde evitare di danneggiare ulteriormente il pianeta, e anche il problema del riscaldamento globale si potrà ridurre soltanto solo se gli scienziati troveranno la soluzione.

L’Italia vanta eccellenti ricercatori ma non brilla per gli investimenti nella ricerca

Siamo al 27esimo posto per la spesa nella ricerca ma ci troviamo all’ottavo gradino della classifica dei risultati ottenuti. Va considerato che, purtroppo, la maggior parte dei ricercatori italiani porta i progetti all’estero perché trova condizioni più favorevoli per realizzarli. Insieme a noi, al 27esimo posto della classifica degli investimenti in ricerca e sviluppo, c’è l’Ungheria, mentre al primo la Corea del Sud, seguita da Israele e Svizzera. L’Italia investe meno della media europea e dei Paesi dell’Ocse: spendiamo risorse inferiori e, di conseguenza, abbiamo meno ricercatori rispetto per esempio a Spagna, Germania, Francia e tutta l’Unione Europea. Inoltre abbiamo meno formazione scientifica nelle prime fasi della scuola e viene poco sostenuta la ricerca di base, fondamentale per arrivare a risultati che abbiano un impatto sulla società.

A cosa è dovuta questa situazione?

La ricerca è sempre stata sottofinanziata. Non abbiamo in generale una tradizione universitaria di eccellenza: naturalmente ci sono eccezioni ma i nostri atenei non sono fra i primi dieci del mondo anche se va considerato che i criteri di valutazione adoperati per stilare questa graduatoria tengono conto anche di fattori come l’organizzazione dell’ospitalità e i servizi offerti per incoraggiare i giovani ricercatori. Per anni l’Istituto Mario Negri ha ospitato studenti olandesi e i manager delle loro università prestavano molta attenzione a tutto ciò. Erano preoccupati per come si sarebbero trovati i giovani ricercatori a Bergamo e per la vita sociale che avrebbero potuto fare in città, per l’accesso ai musei, ai teatri e ad altre attrattive. Non pensavano solamente al progetto scientifico che avrebbero offerto agli studenti ma erano attenti anche alla socialità e al loro benessere. Questo aspetto mi ha colpito molto.

Come mai?

In Italia siamo attenti al benessere dei professori che spesso hanno un’età media molto più alta dei loro colleghi degli altri Paesi dell’Europa o degli Stati Uniti e la carriera in enti di ricerca, ospedali e università non è sempre lineare e trasparente. Basta considerare la questione dei concorsi, che è emersa anche recentemente: non bisogna generalizzare, ma spesso sono pilotati per far vincere gli allievi del professore. Andrebbero aboliti dando a ogni ente, ospedale o ateneo la possibilità di assumere chi volessero e, naturalmente, i finanziamenti all’ente si dovrebbero legare ai risultati che raggiunge. In questo modo nessuno avrebbe interesse a inserire nel proprio organigramma persone mediocri ma lepiù meritevoli. È quello che avviene per esempio negli Stati Uniti, dove le università cercano di accaparrarsi i più bravi. Il punto è che un ospedale è forte se lo è tutta la sua equipe e un’università è forte se lo sono tutti quelli che ne fanno parte. In Italia, invece, la carriera è farraginosa: ci sono importanti eccezioni ma nella media gli enti, gli ospedali e le università non brillano per la capacità di favorire i giovani e la ricerca dei migliori come succede in Inghilterra, Germania, Francia e Svezia solo per fare qualche esempio.

E su quali ambiti ritiene sia prioritario cominciare a investire di più?

Indico tre aree. La formazione dei giovani è la prima e parte dalle scuole elementari: le manifestazioni nei confronti dei vaccini e la paura che la tecnologia a mRNA ci potesse trasformare in organismi geneticamente modificati dipende dal fatto che non abbiamo avuto questa formazione. Il secondo aspetto è la ricerca di base, che necessita di maggiori risorse, mentre il terzo è un cambiamento nella preparazione di chi lavora nell’area medica: c’è bisogno di “clinical investigators”, cioè si dovrebbe avere una formazione universitaria tale per cui nessuno possa fare il medico senza essersi formato nel campo della ricerca.

Quale sarebbe la loro funzione?

Sono persone che svolgono contemporaneamente clinica e ricerca. Non significa fare un’attività al mattino e l’altra al pomeriggio o viceversa, ma lavorare avendo una formazione di ricerca scientifica. La medicina è talmente complessa che se i ricercatori non sono coinvolti nei progetti non capiscono quello che fanno gli altri. Leggere le pubblicazioni non basta perché quando gli studi vengono pubblicati sulle riviste scientifiche, sono già vecchi di 6 o 7 anni perché prima viene eseguita un’articolata serie di passaggi che richiedono tempo.

La ricerca è fondamentale anche per le malattie rare di cui ricorre la giornata mondiale. Quali sono le principali novità in questo campo?

Innanzitutto va premesso che le malattie rare indicano un universo molto eterogeneo ma considerate nel loro insieme colpiscono parecchie persone.Le malattie rare potrebbero essere 8mila,hanno una prevalenza non superiore ad 1 caso ogni 2.000 abitanti nella popolazione e si stima che in Italia ne siano affette oltre 2 milioni di persone. Ognuna è rara ma insieme rappresentano il 10% di tutte le malattie. L’attività del Centro Daccò si concretizza grazie a progetti multidisciplinari che spaziano dalla ricerca di base a quella epidemiologica, alla ricerca clinica. In trent’anni di attività sono 1.054 le malattie segnalate e oltre 890 le mutazioni identificate nei geni studiati. Abbiamo cominciato a lavorare sulle malattie rare negli anni Novanta, dal 2001 il centro è sede del Coordinamento della Rete Regionale per le Malattie Rare della Lombardia e opera in collaborazione con il Centro Nazionale Malattie Rare dell’Istituto Superiore di Sanità.

Centro Daccò - Villa Camozzi

Ci racconti

Grazie a un lavoro meraviglioso della dottoressa Erica Daina, da precursori, abbiamo censito tutte le malattie rare in Lombardia. Coordiniamo l’attività di 46 presidi, ospedali o centri specializzati e abbiamo contribuito alla creazione del registro nazionale, che è nato dopo il nostro. Svolgiamo un servizio di informazione e dal 1992 abbiamo risposto a circa 32mila richieste: nei primi anni il 70% ci veniva inoltrato dai malati o dai loro familiari e solamente il 30% dai medici e dagli operatori sanitari, mentre oggi provengono da entrambi a circa il 50%.

Sono ottimi risultati

L’indice di gradimento è molto elevato e abbiamo rapporti con la maggior parte delle associazioni che si occupano di malattie rare in Europa. Inoltre, organizziamo incontri fra i massimi esperti delle varie patologie e i pazienti che in queste occasioni possono fare tutte le domande, e abbiamo avviato attività relative a malattie rare non diagnosticate per poter arrivare alla diagnosi. A volte si riesce a dare un nome, altre volte no. Nel prossimo futuro daremo vita a nuovi progetti ambiziosi. Per realizzarli è importante l’aiuto di tutti e colgo l’occasione per ringraziare l’associazione ARMR per il supporto che ci ha dato.

Come ha influito il Covid sui malati rari?

Il Covid ha travolto il sistema sanitario. I malati affetti da patologie rare sono più esposti e quindi hanno un bisogno maggiore di attenzione. Non abbiamo a disposizione dati per sapere quanto l’infezione da SARS-CoV-2 abbia contribuito a complicare le loro condizioni e la mortalità, anche perché l’impatto è molto diverso a seconda delle varie malattie. L’associazione Eurordis ha evidenziato che la pandemia ha comportato il rallentamento delle visite, l’impossibilità di accedere agli ospedali e l’interruzione dell’assistenza domiciliare. Nell’organizzazione della vaccinazione ci sono stati problemi nella definizione della priorità, ma l’adesione è stata elevata: sappiamo che a maggio 2021 il 50% dei pazienti rari aveva ricevuto almeno una dose e, secondo l’associazione Uniamo, solo il 3% degli intervistati ha dichiarato di essere restio. I dubbi non nascevano da una contrarietà al vaccino ma dai timori che potesse complicare le loro problematiche. È importante, invece, spiegare che non esistono controindicazioni specifiche per i soggetti rari al di là di quelle comuni a tutti gli altri.

E quali sono i prossimi traguardi per le malattie rare?

Da dieci anni la ricerca ha cambiato la storia naturale di molte malattie. Alcuni farmaci innovativi che abbiamo contribuito a studiare evitano l’aggravamento della malattia o la morte. Il problema di queste cure è il costo che, per un anno di trattamento, può arrivare a 400mila euro. In Italia fortunatamente possiamo contare sul Servizio Sanitario Nazionale ma in altri Paesi purtroppo questa opportunità non c’è. Bisogna convincere le industrie a continuare a sostenere le cure quando si dimostrano efficaci: è paradossale ma quando è finito lo studio, i pazienti che hanno contribuito a stabilire l’efficacia di un certo farmaco dovrebbero averne a disposizione fintanto che serve, certe volte per tutta la vita. Inoltre, si devono prendere in considerazione i problemi dei malati affetti da malattie rare che vivono nei Paesi poveri. In un articolo intitolato “Il prezzo oltraggioso di certe terapie per le malattie rare”, abbiamo proposto all’industria farmaceutica di mettere a disposizione gratuitamente il farmaco per chi non può comprarlo in Africa e nelle aree più povere dell’est dell’Asia e nell’America Latina.

Come si possono abbassare i costi?

I costi si abbassano con la concorrenza, come si è verificato nella produzione dei farmaci contro l’epatite C. Inizialmente il prezzo era altissimo, poi altre compagnie ne hanno messi in commercio simili e il costo è diminuito. A volte, però, le industrie che hanno molte possibilità economiche tendono a comprare quelle più piccole che potrebbero diventare loro concorrenti. Serve, quindi, l’impegno di tutti e va riconosciuto che in questi anni l’industria ci ha consentito di compiere enormi passi avanti nella cura delle malattie rare. E proprio l’industria, insieme a organizzazioni come Telethon, metterà a disposizione di certi ammalati di malattie rare approcci di terapia genica che consentiranno di guarire malattie per cui finora non cerano prospettive.

giuseppe remuzzi - mario negri

E il Mario Negri cosa sta facendo in questa direzione?

Susanna Tomasoni e Ariela Benigni per esempio, partendo dalle cellule di un nostro paziente affetto da una malattia molto rara,le hanno riprogrammate in laboratorio per farle tornare allo stato embrionale, hanno corretto il gene difettoso in modo da farle tornare cellule renali differenziate. Questo ci sta aiutando a capire la natura della malattia di cui soffre questo paziente e i suoi familiari.
Lo stesso si potrebbe fare con altre malattie, aprendo nuovi importanti orizzonti: i test verranno estesi sui pesci-zebra (pesci con delle strisce nere sul dorso, che li fanno somigliare alla zebra), su cui sarà più agevole intervenire.

In certi campi le conoscenze acquisite con le malattie rare sono state utili anche per capire di più del virus SARS-CoV-2 e affrontare la malattia Covid-19?

Sì, non si sono mai visti così tanti ricercatori lavorare insieme allo stesso problema in tutto il mondo. Le conoscenze relative ad altre patologie fra cui le malattie rare sono state utili per capire come affrontare il Covid. Le conoscenze sulle malattie rare del complemento,per esempio hanno permesso di capire perché si formano trombi nei capillari polmonari e di trovare farmaci capaci di ovviare a questa importante complicazione.

Per concludere, a due anni di distanza dallo scoppio della pandemia, il peggio è passato?

Il titolo di un commento del Lancet qualche giorno fa ha annotato che il virus rimarrà fra noi diversi anni ma la pandemia starebbe volgendo al termine. Non sono sicuro che sia proprio così ma spero di sì. Questo virus continua a variare, anche nella variante Omicron: non possiamo escludere che arrivino nuove varianti che già cominciano a circolare in altri paesi, in Russia per esempio, ma ormai sappiamo come affrontare questi e altri virus simili e non penso torneremo ai drammi che abbiamo vissuto a Bergamo fra febbraio e marzo del 2020.

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