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Lo sguardo di beppe

“Caro dottore, come sta la nostra sanità?”

Un medico primario della provincia di Bergamo fa il punto sulla sanità: "Bisogna cominciare a dire qual è la missione alla quale puntare. È necessario dire se la missione è il territorio, se è non andare in perdita, ma soprattutto, bisogna avere il coraggio di dichiararlo. Bisogna organizzare le persone, razionalizzarle, non lasciare dei vuoti che determinino poi l’impossibilità a generare prestazioni o visite, perché, se manca il personale, non si può centrare nessun obiettivo"

La sanità è un tema sempre soggetto ad analisi e critiche e la maggioranza delle persone, attualmente, è insoddisfatta del servizio erogato.

Decido così di scomodare un esperto sul campo ogni giorno e gli pongo alcune domande alle quali risponde con straordinario realismo e competenza. Dopo i convenevoli di rito passo subito a chiedere il parere dell’esperto sulla medicina di base e sul ruolo dei medici di base, per altro, presenti sul territorio in numero inferiore a quanto la densità dei cittadini richiederebbe. Gli utenti del servizio li definiscono impiegati utili per ripetere le ricette, senza verificare se il farmaco assunto da anni vada ancora bene o meno. Raramente, dicono le lamentele, visitano e meno ancora, rispondono alle chiamate da casa.

“Io faccio l’ospedaliero – risponde il medico – e anche qui abbiamo molti problemi. Quello che posso affermare è ciò che viene detto dalle persone che visito. Alcune di queste cose sono certamente vere o riferite come tali”. E continua dicendo che si è di fronte ad un cambiamento radicale della professione medica. Si sta affrontando un periodo pieno di incognite, causate dalla pandemia che abbiamo vissuto. Come sempre, dice il medico specialista, in tutte le categorie ci sono persone che emergono, che si adeguano, quelle che hanno paura, ci sono, insomma, esempi di tutti i tipi. Ci sono sanitari che si sono sacrificati e qualcuno ha perso la vita nell’esercizio della professione, poi ce ne sono altri che sono sfuggiti al contatto umano per evitare il contagio, per comodità e per tanti altri motivi. Lo specialista in neurologia è convinto che il problema principale sia soprattutto organizzativo. Sostiene che nella Bergamasca la qualità delle persone è normalmente elevata e la voglia di lavorare è sempre stata una caratteristica della gente di questa provincia e anche di coloro che ci son venuti a lavorare.

“C’è stato e l’ho visto anche in ambito ospedaliero, questo periodo di grande confusione, dove siamo rimasti senza informazioni o con informative caotiche, con gente che parlava di tutto pur di stare in televisione. Ognuno di noi ha fatto il possibile“. Chiedo come mai si parli di curva discendente della pandemia mentre i morti continuano ad essere un numero importante e lo specialista in neurologia risponde che il numero dei morti dipende soprattutto dalle malattie che hanno le persone al momento di contrarre il Covid. Quindi gli anziani, i fragili, gli oncologici, i malati gravi, i diabetici severi rischiano molto di più rispetto alle persone che non hanno nulla. Il numero dei contagi, pur nel decremento che si osserva, è ancora molto alto. Considerando l’ottimismo in circolazione, ci si attendeva un calo più sensibile dei numeri e non si sa nemmeno dove si andrà a finire.

“Nel mio ospedale sono state dedicate due ali al Covid. Ora una è stata chiusa perché gli ultimi due pazienti sono stati dimessi. È lì pronta; verranno accolti, non verranno accolti altri malati di Covid? Questi letti erano per la neurologia, reparto che dovrebbe afferire alla mia competenza, ma non so se torneranno alla destinazione originaria”. Ovviamente, per ragioni si spazio giornalistico, si sta facendo un discorso un po’ fumoso ma, afferma che nessuno sapeva nulla di questo virus. Questo minuscolo essere ha colto in contropiede l’umanità intera. Dico al sanitario di aver seguito una trasmissione televisiva nella quale si parlava di un primario bergamasco, ora in quiescenza, il quale affermava che somministrando antiinfiammatori nella fase iniziale del contagio, si sarebbero ottenuti ottimi risultati e si sarebbe probabilmente evitata tanta ospedalizzazione. Pare però che la ricerca sia stata bloccata. Chiedo quindi se il blocco non sia stato determinato da Big Pharma per un puro movente di carattere economico. Ed ecco la risposta: “Può essere, ma non credo. È troppo coinvolta l’umanità per vederla solo sotto un profilo economico per un solo motivo. Se una multinazionale riesce a trovare un medicinale attivo contro questo virus, ha una panoramica aperta per decenni”.

Affermo che Pfizer e Merck, hanno trovato un farmaco che sembra risolutivo. “Non abbiamo ancora la certezza. Questo è il dato di fatto: arrivare primi comporta acquisire dei meriti che si ritraducono in termini economici. Quindi hanno interesse a farlo a favore dell’umanità. Una malattia che colpisce sette miliardi di persone, necessariamente ha dei margini di vendite e di guadagni incalcolabili”.

Ora, obietto che l’Italia, pur mancando migliaia di medici di base mantiene il numero chiuso nelle Università di medicina e non ne comprendo il senso. Sul numero chiuso, il neurologo afferma di essere perplesso, perché, inevitabilmente, il numero aperto aumenta il numero degli iscritti, ma facilita la selezione naturale. In Francia, la Facoltà di medicina è aperta, ma la selezione è feroce. In questo momento, continua, ci sono altre professioni o scienze che sono più appetibili. Si pensi all’Ingegneria che sta coinvolgendo, con tutti i rami, soprattutto della tecnologia avanzata, schiere di giovani molto interessati a quelle discipline più che a passare le notti in pronto soccorso. Afferma che siamo davanti ad un cambiamento epocale. “Se si potesse fare un paragone, questo virus è come se avesse diviso il tempo in due epoche: prima del Covid e dopo il Covid”.

Passo ad un altro argomento che è di estrema attualità: sanità pubblica, sanità privata e chiedo cosa ne pensi. “Questo problema va sempre visto da persona a persona. Io ho sempre un’estrema fiducia nella persona umana, sia essa un operatore o un utilizzatore. Non si può generalizzare. Può capitare, anzi spesso capita che si critichi la medicina di base; però, anche tra questi medici ci sono persone che si danno da fare e che, se chiamate, vanno a visitare i pazienti sia di sabato che di domenica. In un campo dove ci sono scarse indicazioni organizzative, purtroppo c’è il libero arbitrio che dove fa bene fa bene e dove fa male fa male. Sono successi sicuramente fatti anomali in tutti i settori”.

Parlando da utilizzatore della sanità, gli dico che non sono assolutamente soddisfatto di come questo vitale diritto alla salute viene tutelato e lo specialista risponde: “Anche qui non si può generalizzare. Il disagio che si sente in giro è vero. Personalmente fatico, da quando c’è il Covid, a fare le visite, soprattutto quelle pubbliche, perché mancano gli spazi. Gli ospedali non erano pensati per avere spazi che si prestassero a poter visitare in sicurezza. Non c’era proprio nulla e c’è tutta una situazione da ricostruire. Bisogna fare tesoro di questi errori anche se, personalmente, non vedo all’orizzonte segnali che vadano positivamente a soddisfare queste esigenze. Per quello che riguarda pubblico e privato, il problema lo vedo ancora più a monte. Lo vedo da medico profondamente pubblico che lavora nel privato per situazioni personali dal 2002; lo vedo da persona che ha fatto un minimo di attività politica e quindi si è dedicato alla cosa pubblica. Il problema non è solo la medicina; tutto sta andando verso la privatizzazione, quindi anche la sanità, inevitabilmente, andrà verso la privatizzazione”.

Gli chiedo come vedrebbe una partecipazione dello stato nei gruppi privati e risponde: “L’abbiamo visto con Alitalia, è un problema di difficile soluzione. Non a caso, anche gli ospedali pubblici dovranno diventare delle fondazioni che risponderanno a ragioni privatistiche anche se radicati nell’ambito pubblico. Se andiamo a prima del ’78, le mutue erano private, perché c’erano, ad esempio, le mutue Inam, la mutua delle grandi fabbriche e altri tipi di assistenza. Si sta piano piano tornando ad una organizzazione che abbia dei grossi capitali privati. All’interno di questo, poi, c’è la privatizzazione nel senso della produzione delle prestazioni dove, inevitabilmente, qualche amministratore punta al reddito e qualcun altro punta al territorio e anche qui cambia da persona a persona. L’impressione che attualmente ho di tutte queste manovre è che sia pubblico che privato cerchino di copiarsi anche sotto gli aspetti meno solidali verso la comunità. I responsabili di queste strutture, da ultimo, siano essi amministratori delegati o direttori generali, si reggono su alcuni parametri che vengono dettati dall’ente proprietario o dall’ente pubblico. Il parametro principale è non andare in perdita. Quindi, per mantenere la posizione, si devono generare profitti anche presso le strutture pubbliche. Ma è soprattutto la mentalità degli operatori che deve cambiare, siano essi medici, infermieri, tecnici o amministrativi. Bisogna cominciare a dire qual è la missione alla quale puntare. È necessario dire se la missione è il territorio, se è non andare in perdita, ma soprattutto, bisogna avere il coraggio di dichiararlo. Bisogna organizzare le persone, razionalizzarle, non lasciare dei vuoti che determinino poi l’impossibilità a generare prestazioni o visite, perché, se manca il personale, non si può centrare nessun obiettivo. Mi ricollego alle decisioni relative alla ristrutturazione del PNRR che a mio giudizio, troverà delle difficoltà per mancanza soprattutto del personale titolato a svolgere le sue mansioni. Per quanto riguarda la redditività, mi viene in mente il corso che ho fatto anni or sono, per avere il ruolo di Primario. Era tenuto da uno dei più grandi esperti di economia sanitaria. A torta finita, l’esperto ci ha detto chiaramente che nell’organizzazione di un reparto ospedaliero bisognava puntare su un numero limitato delle malattie di competenza non solo per migliorare la qualità del risultato ma anche per mantenere la sostenibilità economica della struttura. E questo si ottiene in base a quanto si fa. Più si fa e migliore sarà il risultato, ma non si può dare tutto a tutti. Ovviamente un amministratore che vuol fare reddito sceglie le attività che rendono di più”.

Concludo che, quindi, ogni unità ospedaliera che abbia come finalità imposta dagli investitori il reddito, debba puntare su alcune specialità, lasciando ad altre strutture il compito di occuparsi dei restanti interventi, per curare le centinaia di malattie che con il tempo e con le tecnologie investigative sempre più sofisticate, si vanno a scoprire. Non chiedo assenso o negazione a questa mia conclusione, anche se mi sembra coerente con quanto emerge dall’osservazione di quello avviene nella pratica quotidiana del settore. Ringrazio di cuore lo specialista di lungo corso per la sua disponibilità a chiarire alcuni aspetti del mondo sanitario, ripromettendomi di tornare sull’argomento, quando si vedranno ulteriori segnali che indicheranno la direzione nella questo settore di vitale importanza si incamminerà

 

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