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Le ragioni del no

Dopo l’Italcementi e la Popolare di Bergamo anche l’Atalanta diventa straniera. E nessuno batte ciglio

Bergamo sempre meno bergamasca, un mantra che da qualche anno divora la storia e il sentimento cittadino perché i “new imprenditori” fanno il loro mestiere: investire per fare soldi, da buoni imbonitori dopo avere fatto credere che la Dea fosse l'eterna passione di famiglia

La voce circolava da qualche giorno. Ma quando una notizia non viene subito smentita, abbiamo imparato dalla storia una cosa: si sta aspettando solo il momento più favorevole per dare l’annuncio.

E fin dai primi sarcastici – quando non offensivi – commenti dei tifosi, non sembrava una notizia molto digeribile quella inerente la cessione dell’Atalanta. Anzi, per niente. I veri a perderci sono loro, i tifosi, e lo sbigottimento è tanto, come i paragoni con le precedenti proprietà.

L’annuncio ufficiale è arrivato, pure alla  vigilia di un incontro delicato: l’Atalanta non è più bergamasca. E lo era, non è poco per quanto conti, dalla sua nascita. Un dogma mai messo in discussione.

L’Atalanta ha un nuovo padrone, Stephen Pagliuca, business man americano, presidente del fondo Bain e patron dei Boston Celtics. Niente di innaturale, come insegnava un certo Enrico Cuccia: le azioni si pesano, non si contano e con il 55 per cento in mano a investitori americani la Dea diventa come il Milan.

E, visto che il comunicato tiene a precisare che l’amministratore delegato rimarrà Luca Percassi, viene in mente che anche Preziosi è rimasto dopo avere fatto bingo con un altro fondo americano, come del resto il Parma che naviga nel retro classifica della serie B.

Quindi una questione economica, una scelta di monetizzare dell’azionista di maggioranza (ol padru’). Oppure vende perché da solo non è più in grado di fare fronte agli impegni e ai risultati che il tifoso si aspetta?

Non era possibile vendere un’importante quota di minoranza, cedendo delle deleghe mantenendo la maggioranza?

Bergamo ancora una volta si ritrova meno bergamasca, un mantra che da qualche anno divora la storia e il sentimento cittadino perché i “new imprenditori” fanno il loro mestiere: investire per fare soldi, da buoni imbonitori dopo avere fatto credere che la Dea fosse l’eterna passione di famiglia.

È questo che non piace. Quello che la gente non capisce e oggi non riesce ad accettare. Il risveglio è ancora più lacerante di quando Bergamo si alzò con l’Opa di Intesa sotto i portici della Popolare, anche lì tutti a parlare di difesa del territorio da parte degli azionisti di maggioranza, poi semplicemente convinti da un adeguamento del cash.

E qui non c’era da mettere d’accordo troppi azionisti (come nel caso delle spa quotate che devono seguire le regole del mercato), l’azionista dell’Atalanta era unico, quindi ahimè anche padrone delle passioni, del tifo di Bergamo.

La Dea non è più bergamasca. Cosa ne rimarrà è meglio chiederlo tra le nuvole ai Bortolotti e a Ivan Ruggeri che avevano vissuto pure loro periodi economici non eclatanti, senza mai pensare di cedere, per giunta a uno straniero, la Dea di famiglia. Anzi, i Ruggeri favorendo Percassi, senza guardare al portafoglio perché l’Atalanta rimanesse bergamasca.

E i politici in questa Spoon River di  casa nostra – a parte le foto con la Goggia che torna dalla Cina e l’inno a Bergamo e Brescia capitali della cultura – si fanno sfilare prima l’Italcementi, poi la mitica Popolare di Bergamo, ora la Dea senza mai battere ciglio?.

Troppo semplice dire che tutto il mondo cambia. Meglio ricordare che un fondo di investimento, come un qualsiasi investitore, quando impegna capitali e guadagna, deve monetizzare per distribuire utili ai sottoscrittori.

A Bergamo con i Turani, i Bortolotti e i Ruggeri, seppur costretti, non era mai successo in questa maniera e il primo Percassi se ne andò perché si accorse che non era semplice fare il presidente di minoranza, quello che ora viene celebrato come un successo dell’operazione che appare come meramente finanziaria.

Il resto è noia, tanto che i commenti sono del tipo “ora a ciascun nascituro non più la maglietta della Dea, ma quote del fondo d’investimento”, per passare a quello “non ci resta che Andreoletti“, che senza enfasi il suo stadio lo ha costruito da solo. E senza tanti aiuti dagli amministratori locali.

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