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Salute

L'intervista

Il bi-test in gravidanza, l’esperta: “Cos’è e quando viene eseguito”

Ne parliamo con la dottoressa Paola Rosaschino, responsabile dell’unità operativa di ginecologia e ostetricia del Policlinico San Pietro - Gruppo San Donato

Si chiama B test o test combinato o Ultra-screen ed è un esame di screening prenatale non invasivo che permette di calcolare con un’alta attendibilità la probabilità di rischio di alcune anomalie cromosomiche del feto come, per esempio, la sindrome di Down. Eseguito sin dalle prime settimane di gravidanza, consiste in un semplice prelievo del sangue materno e in un’ecografia. Ma in quali casi può essere utile? E come si svolge praticamente? Ci sono rischi per la mamma e/o il feto? Ne parliamo con la dottoressa Paola Rosaschino, responsabile dell’unità operativa di ginecologia e ostetricia del Policlinico San Pietro – Gruppo San Donato.

Dottoressa Rosaschino, che cos’è esattamente il B-test?  

Il “B-test” consiste nel dosaggio di due proteine (Free Beta-HCG e PAPP-A) a partire da un semplice prelievo di sangue e, i valori di questi dosaggi, insieme a un parametro ecografico (la misura della translucenza nucale) vengono confrontati con quelli delle cosiddette mediane di riferimento. Il risultato è un indice di rischio espresso come percentuale o frazione. La Beta-HCG e la PAPP-A subiscono delle variazioni in presenza di anomalie cromosomiche e/o anomalie della placenta. In particolare, è stata studiata l’associazione con la trisomia 21 (o sindrome di Down), la più frequente anomalia cromosomica presente alla nascita: un aumento della Beta-HCG e una diminuzione della PAPP-A sono considerati indice di un aumentato rischio di anomalia cromosomica. I risultati delle analisi del sangue vengono poi confrontati con quelli che si ottengono con la translucenza nucale. Questa indagine consiste nella misurazione, mediante un’ecografia transaddominale, dello spessore di una minuscola falda di liquido fra la cute e la colonna vertebrale del feto, a livello della nuca.

Quanto sono attendibili i risultati?

Questo test non offre una diagnosi certa, ma esprime un basso, moderato o alto rischio che il bambino presenti un difetto cromosomico: maggiore è lo spessore della translucenza nucale, più alto è il rischio di anomalia. Inoltre, rispetto alle altre indagini invasive (es. amniocentesi) questo esame, contemplando anche l’ecografia, fornisce indicazioni anche per eventuali altre anomalie che possono essere visibili a quell’epoca gestazionale. L’associazione tra prelievo ematico e translucenza nucale, se eseguiti in modo corretto e da personale adeguatamente formato, ha un’attendibilità che può raggiungere il 90-95%. È importante comunque ribadire che si parla di attendibilità e probabilità di rischio, non di certezza: la negatività riduce il rischio ma non lo annulla, mentre la positività non implica necessariamente che il feto sia affetto da malattia, anche se richiede eventualmente ulteriori accertamenti diagnostici (procedure invasive di secondo livello o ricerca del DNA fetale su prelievo ematico materno).

Quando la futura mamma può sottoporsi al test?

Sia il dosaggio delle proteine sia la translucenza nucale vengono eseguiti, in genere, tra la 11a e la 13a settimana: in questo periodo della gestazione infatti è possibile una migliore visualizzazione della plica nucale e i dosaggi ematici presentano la maggior sensibilità.

Per chi è indicato?

Si consiglia in tutti i casi in cui si vuole avere una probabilità di benessere fetale senza incorrere nei rischi di un esame invasivo, soprattutto in una età in cui il rischio è minimo (sotto i 35 anni).

Ma si tratta di un’indagine dolorosa o che comporta rischi per la mamma o il bambino?

No, il prelievo ematico non presenta alcun rischio e non è doloroso. Lo stesso vale per la translucenza nucale, che da un punto di vista “tecnico” è un’ecografia a tutti gli effetti.

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