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Il panel

“Mamma studio storia su Assassin’s Creed”: agli Stati Generali della Scuola Digitale le sfide sull’uso dei videogiochi fotogallery

Nel nostro paese il 38% delle persone tra i 6 e i 64 anni video-gioca, con una media di 8 ore a settimana e un interesse cresciuto inevitabilmente con le restrizioni per la pandemia

Bergamo. I videogiochi stanno pericolosamente alterando la nostra realtà, soprattutto quella dei giovani, o costituiscono un’incredibile opportunità di cambiamento sociale, che, già in atto, va compreso, abbracciato e oculatamente assecondato? Per gli adolescenti sono un’occasione di fuga dalla realtà o di costruzione della propria identità?

Temi caldi quelli trattati nel terzo panel nell’ambito della prima giornata degli Stati Generali della scuola digitale 2021, che ha visto intervenire Matteo Lancini, psicologo esperto di adolescenti, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro, Elisa Lobefaro, psicologa, Emilio Cozzi, giornalista, autore e divulgatore di cultura videoludica, e-sport, spazio e innovazione tecnologica, e Thalita Malagò, direttrice generale di IIDEA (Italian Interactive Digital Entertainment Association).

Un dibattito interessante che riguarda un settore sempre più pervasivo della vita anche in Italia, che oscilla tra la quarta e la quinta posizione come mercato per consumi in Europa, con un fatturato di circa 2,2 miliardi di euro, ma anche giovane, col 79% di impiegati nello sviluppo sotto i 36 anni. Nel nostro paese il 38% delle persone tra i 6 e i 64 anni video-gioca, con una media di 8 ore a settimana e un interesse cresciuto inevitabilmente con le restrizioni per la pandemia. Un fenomeno che, quindi, molto complesso che va analizzato attentamente, evitando di evidenziare solo i soliti stereotipici aspetti negativi. Oggi, dice Lancini, “è sempre più difficile distinguere tra un uso fisiologico dei videogiochi e una vera e propria dipendenza, anche perché l’identità dell’adolescente moderno si costruisce anche all’interno di questi ambienti: il rischio è di confondere la dipendenza col ritiro sociale come nel fenomeno degli hikikomori, adolescenti maschi che si suicidano socialmente ma riescono a mantenersi in vita psichicamente col videogioco”. Occorre quindi “cambiare i modelli educativi dell’infanzia e concentrarsi sulla relazione che i ragazzi hanno con l’utilizzo dei videogiochi e con gli adulti: famiglie e insegnanti devono comprendere questa nuova passione e aiutarli a costruire il proprio futuro”.

Per Cozzi “ignorare i videogiochi significa ignorare una parte della realtà che ha un impatto sulla vita normale” in un processo che definisce “gamification”, ricordando come, nel 2019, Netflix abbia perso utenze per colpa della diffusione di Fortnite. Cozzi aggiunge che “siamo ancora all’inizio di una consapevolezza di uno strumento potentissimo”, che va oltre il semplice intrattenimento, sfociando nella dimensione del “metaverso”: i giochi diventano un’arena per la condivisione di esperienze, una piattaforma di sviluppo delle soft skills, una tecnologia utile in diverse situazioni, dalla computer grafica usata nella prima della Scala allo studio della realtà virtuale per gli astronauti che nel viaggio verso Marte non vedranno la Terra per due anni, passando per il sopperire alla presenza fisica che abbiamo sperimentato in pandemia.

Occhio però ai difetti della società che si trasferiscono in digitale: pur avvicinandosi alla “maturazione”, nel mondo videoludico persistono le problematiche legate alla rappresentanza di genere, sia nella popolazione di gamer (pur sfatando il mito del “solo per maschi” col 46% di giocatrici donne in Italia) che nei giochi stessi, oltre che il solito pregiudizio reciproco tra videogiocatori e il resto del pubblico. Per cui per Lobefaro “è importante la condivisione e il ruolo di docenti e genitori, che capiscano e si informino sulle mode dei ragazzi per creare un dialogo”.

Ciò che si percepisce dal dibattito è che i videogiochi non sono “cattivi a priori” e non dev’essere esercitato un controllo ferreo su chi ne fa uso: Malagò sottolinea che “serve un impegno da parte di tutti, la famiglia deve fare la sua parte”, sfruttando strumenti come il sistema di controllo dei contenuti PEGI, ma mantenendo una mentalità duttile rispetto al comportamento dei ragazzi “definendo con loro un insieme regole che cambiano nel corso del tempo”, senza perdere di vita tutte le potenzialità dei videogiochi: dalla formazione, all’integrazione di stranieri (citando un esperimento dell’Università Cattolica), dalle opportunità professionali per i ragazzi, dalla diversa condivisione del tempo libero familiare alla sperimentazione di tecnologie come realtà virtuale e intelligenza artificiale.

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