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L'intervista

Ariela Benigni: “Ecco le novità sulle cure contro il Covid-19”

La dottoressa Ariela Benigni dell'Istituto Mario Negri traccia una panoramica delle nuove possibili prospettive farmacologiche contro il Covid

Bergamo. La ricerca scientifica è molto impegnata a trovare cure efficaci contro il Covid-19. In tutto il mondo tanti laboratori stanno conducendo studi per individuare terapie da somministrare quando si contrae l’infezione da SARS-CoV-2: i percorsi che i ricercatori stanno seguendo sono diversi e alcuni sembrano dare risultati promettenti.
Adottare approcci differenti è importante perché permette di approfondire le conoscenze sul virus per capire come affrontarlo: per saperne di più abbiamo intervistato la dottoressa Ariela Benigni, segretario scientifico e coordinatore delle ricerche delle sedi di Bergamo e Ranica dell’Istituto Mario Negri, chiedendole di tracciare una panoramica delle nuove possibili prospettive farmacologiche.

Quali sono le novità sulle possibili cure contro il Covid-19?

Questa pandemia ci ha indotto a studiare moltissimi farmaci: alcuni possono essere utilizzati come cure che è possibile effettuare a casa quando l’infezione è ancora in fase molto precoce, mentre altri devono essere somministrati sotto controllo medico in ospedale. Per valutare verso quale approccio terapeutico indirizzarci, il primo passo è stato quello di capire cosa avviene nel nostro organismo una volta che il virus ha cominciato a infettarlo. Approfondendo i meccanismi di danno che si verificano negli individui contagiati, abbiamo visto che il virus innesca una robusta risposta infiammatoria.

Ci spieghi

Dopo aver incontrato il virus, il nostro organismo comincia a produrre una quantità abnorme di proteine infiammatorie, che vengono chiamate citochine. Prodotte nei vari tessuti, per esempio nel polmone, nel cuore e nel cervello, vengono identificate con diversi nomi: solo per citarne alcuni, abbiamo l’interleuchina 1, l’interleuchina 6, il TNF (dall’inglese Tumor necrosisfactor, cioè fattore di necrosi tumorale) e il TGF-β (dall’inglese Transforming Growth Factor beta, cioè Fattore di crescita trasformante beta) e la loro elevata presenza porta danni alle cellule.

Cosa accade esattamente?

Il virus entra nelle nostre cellule, si duplica e viene percepito come un fattore estraneo: il nostro organismo, così, inizia a produrre queste proteine infiammatorie e per questo si stanno studiando molto l’uso di farmaci antinfiammatori. In modo particolare è stato approfondito l’utilizzo di alcuni di questi medicinali in grado di inibire un enzima che fa produrre le proteine infiammatorie chiamato COX2. Sulla base di questa evidenza il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, e il professor Fredy Suter, che è stato primario di malattie infettive all’Ospedale di Bergamo, in collaborazione con alcuni ricercatori del Mario Negri, hanno messo a punto un protocollo di cura a casa da effettuare molto precocemente, basato prevalentemente sugli antinfiammatori.

E cosa ha previsto?

I pazienti sono stati curati al proprio domicilio appena cominciavano ad avvertire i primi sintomi, ancor prima di avere il risultato del tampone.Hanno ricevuto una terapia con antinfiammatori e soprattutto inibitori della COX2, ossia Nimesulide e Celecoxib, per bloccare la produzione delle citochine, cioè l’infiammazione. Si è ricorso a questi farmaci perchè negli anni abbiamo studiato moltissimo gli inibitori della COX2 eseguendo ricerche sulle malattie progressive: queste citochine, infatti, hanno un ruolo anche nelle patologie autoimmuni e in quelle che progrediscono portando alla perdita della funzione di diversi organi quali cuore e rene.È un aspetto che evidenzia l’importanza della ricerca scientifica, perchè le conoscenze acquisite in merito a una malattia possono essere utili per curarne anche altre.

Cos’è emerso?

Dopo il trattamento con inibitori della COX2, i pazienti sono stati sottoposti ad alcuni esami per monitorare se l’infiammazione si fosse ridotta: qualora non fosse stato così, avrebbero ricevuto cortisone e, se ne avessero avuto la necessità, gli sarebbe stato somministrato l’ossigeno. Con questi antinfiammatori sono stati trattati 90 pazienti e solo 2 di loro sono stati ricoverati in terapia intensiva. Facendo un confronto con altrettanti pazienti con profili simili ma trattati con paracetamolo e vigile attesa, la differenza è importante perchè in quest’ultimo gruppo sono stati ricoverati 13 soggetti. Va precisato, però, che lo studio del Mario Negri è stato realizzato retrospettivamente, cioè non c’era un disegno definito a priori: deve essere confermato e ne è in corso un altro per confermare i dati.

Sono stati condotti altri studi sugli antinfiammatori?

Si con altri farmaci. Uno studio realizzato in India ha usato indometacina paragonandola al paracetamolo. In questo caso lo studio era eseguito in ospedale perchè in India le condizioni di vita sono diverse ed è più difficile praticare le cure a casa. Si è visto che nessuno degli individui su cui è stata somministrata precocemente indometacina ha richiesto l’ossigeno, mentre nel gruppo trattato con paracetamolo il 34,3% dei casi ha avuto bisogno di ossigeno, una differenza importante! Un altro studio, condotto a Oxford su 146 partecipanti, ha riportato l’effetto di cure domiciliari somministrate entro sette giorni dall’insorgenza dei primi sintomi da Covid. In questo caso si è utilizzato un farmaco anti-asma chiamato Budesonide e i risultati evidenziano una significativa riduzione della probabilità di ammissione in ospedale. Inoltre, questi soggetti hanno recuperato una vita normale e sono guariti dalla malattia in tempi molto più rapidi rispetto al trattamento con paracetamolo e vigile attesa.

Ci sono farmaci che si potrebbero adoperare quando la malattia è in fase avanzata?

Su questo fronte stanno arrivando dati promettenti da un farmaco che comunemente viene usato contro l’artrite reumatoide, che si chiama anakirna, un inibitore dell’interleuchina 1. Il suo utilizzo è stato testato nell’ambito di uno studio multicentrico a cui hanno preso parte circa 600 pazienti selezionati sulla base di particolari test del sangue.

In che senso?

Sono stati selezionati soggetti che rischiavano di progredire verso un’insufficienza respiratoria, quindi correvano il pericolo di ammalarsi gravemente. Tutti erano ospedalizzati: alcuni avevano il Covid in forma moderata mentre altri severa. Come si evince da un articolo pubblicato sul Nature Medicine, trattandoli precocemente con questo farmaco si è registrata una riduzione dei ricoveri in terapia intensiva e della mortalità. Si tratta di uno studio ancora in fase 2 (studio di efficacia), quindi non può essere ancora considerato definitivo, ma denota che questo farmaco potrebbe essere efficace quando non si riesce a intraprendere la cura in modo precoce. Sarebbe una notizia importante: deve essere confermata su un numero di persone più ampio ma è promettente. Sono dati più incoraggianti di quelli raccolti con un altro studio inerente la somministrazione di Tocilizumab, che inibisce l’interleukina 6, una citochina coinvolta nel processo infiammatorio associato all’artrite reumatoide.L’inibitore di interleuchina 1, anakirna, non è stato usato da solo ma associato a cortisone,anticoagulanti e un antivirale come il Remdesivir. Fra gli antivirali disponibili, Remdesivir risulta il più efficace, ma lo è in certe condizioni, in certi pazienti e in combinazione con altri farmaci.

Un’altra opzione terapeutica è rappresentata dagli anticorpi monoclonali

Si, costituiscono una prospettiva terapeutica importante. Rispetto ai mesi scorsi, la ricerca ne ha individuati nuovi, più efficaci e potenti anche contro le varianti del virus. Sono in grado di agire direttamente contro il virus bloccando le particelle virali che ci hanno infettato, ma vanno somministrati molto precocemente e, almeno per ora, non si possono assumere a casa perchè è più sicuro che siano dati sotto controllo medico. Nell’area degli anticorpi monoclonali esiste un gruppo molto accreditato in Italia condotto dal dottor Rino Rappuoli presso Toscana Life Science che sta terminando prove cliniche per anticorpi monoclonali molto potenti e molto efficace contro tutte le varianti incluso la variante delta. In questo ambito è proprio di questi giorni la notizia che una nuova tecnologia messa a punto dalla Vanderbilt University ha portato alla scoperta di un anticorpo monoclonale efficace nel neutralizzare moltissime varianti di SARS-CoV-2, inclusa la delta. Sono per il momento dati di laboratorio che vanno verificati nell’uomo ma sono molto promettenti.

Nei mesi scorsi si era ipotizzato di ricorrere anche a farmaci tipicamente utilizzati contro la malaria. Ci sono novità in merito?

I dati relativi all’uso dell’Idrossiclorochina, un antimalarico, risultano piuttosto contrastanti. Le sperimentazioni, però, sono in corso su altre tipologie di farmaci, come nel caso dell’Ivermectina, un antiparassitario impiegato anche in ambito veterinario. In laboratorio si è visto che è in grado di indurre la morte del virus e questo ha portato a ipotizzare che potesse essere utilizzato contro il Covid ma la quantità necessaria è molto alta, di gran lunga superiore a quella che si può utilizzare nell’uomo: bisogna capire, quindi, in quali condizioni di malattia e con quali dosaggi si potrebbe intervenire.

Per concludere, una precisazione: le possibili cure sostituiscono il vaccino?

Assolutamente no, il vaccino è lo strumento fondamentale per la prevenzione del Covid-19, perchè previene la forma grave e la morte. E’ necessario che i ricercatori però siano impegnati ad individuare cure efficaci a cui si può ricorrere nel caso si contraesse la malattia.

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