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Vent'anni dopo

Undici settembre, la sete di vendetta ha causato nuove guerre e maggior instabilità

Francesco Mazzucotelli, docente bergamasco grande conoscitore di politica internazionale, commenta per noi il ventennale dell'attacco al cuore dell'America che sconvolse il mondo

Chissà se, nel ventennale degli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono, oltre al doveroso cordoglio per le vittime si riuscirà a cominciare una valutazione senza ipocrisie riguardo ai costi e ai risultati delle strategie messe in campo fino a oggi. Se alcune reazioni di pancia erano in fondo comprensibili all’indomani degli attentati, oggi invece converrà chiedersi se la rabbia non si sia trasformata in odio sterile e in una sete di vendetta che ha causato nuove guerre e maggiore instabilità in tutto il mondo. Converrà chiedersi se l’orgoglio per la propria cultura e le proprie radici non si sia trasformato in una velenosa presunzione di superiorità che inquina la possibilità di un dialogo non facile con altre culture e in particolare con il mondo musulmano.

In Afghanistan, gli USA e i loro alleati lasciano il paese nelle mani dei Taliban dopo averli combattuti per vent’anni. In Iraq, il cosiddetto califfato dell’ISIS è stato sconfitto con il contributo determinante dei combattenti curdi e dei miliziani sciiti delle forze di mobilitazione popolare sostenute dall’Iran. In Siria, il conflitto civile è di fatto congelato secondo i termini di un accordo negoziato tra Russia e Turchia. La Somalia rimane un grande punto interrogativo, con occasionali riverberi nelle regioni di confine in Etiopia e Kenya. Lo Yemen pare scomparso dal radar. Tutta la fascia del Sahel, a sud del Sahara, rimane altamente instabile: ogni tanto il disinteresse occidentale viene bucato da occasionali notizie di incursioni armate e stragi in Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Ciad. La minaccia jihadista ha sconvolto molte città europee, intossicando il già difficile dibattito sull’immigrazione e sulle forme possibili di convivenza tra culture diverse.

In molti commenti, anche provenienti da esponenti e opinionisti di area liberale e persino progressista, sembra di essere rimasti ai tempi di Heinrich von Treitschke, lo storico tedesco di fine Ottocento che giustificava i genocidi coloniali tedeschi in Namibia perché, a suo dire, non si potevano applicare i normali criteri del diritto internazionale “nelle guerre con i selvaggi” e perché la forza era “l’unico rimedio efficace” per farsi capire dalle popolazioni autoctone. Al di là delle considerazioni di ordine ideale, sempre passibili di essere derubricate a svenevolezze da anime belle, viene da chiedersi se l’atteggiamento alla von Treitschke, più o meno consapevolmente spalmato a prescindere dalle categorie politiche nostrane, abbia conseguito risultati apprezzabili in quest’ultimo ventennio. La sensazione è piuttosto quella di un mondo più instabile e più insicuro, nel quale la promessa di una esportazione degli spazi di libertà e democrazia è contraddetta dalle considerazioni di Realpolitik che portano ad appoggiare regimi autoritari in funzione anti-fondamentalista o per interessi contingenti. Come scriveva alcuni giorni fa il consigliere diplomatico Eldar Mamedov, forse è giunto il momento di riconsiderare alcuni strumenti e priorità della politica estera, perlomeno di alcuni paesi europei.

Non si tratta certamente di abdicare ad alcuni valori fondamentali conquistati dal 1789, come la libertà e l’uguaglianza, né di fare chissà quali concessioni alle aggressioni dei gruppi fondamentalisti armati. Il punto semmai è di impostare la contrapposizione sul terreno politico, culturale e cognitivo, e non solamente su quello militare e securitario. In un’approfondita analisi basata su decenni di ricerca sul campo, Nancy Lindisfarne e Jonathan Neale spiegano un punto molto importante sui Taliban, che si può estendere ad altri gruppi della galassia fondamentalista combattente. Essi non sono il prodotto di epoche medievali, bensì della storia recente del “secolo breve”: la guerra fredda, il colonialismo, le fragilità e i fallimenti degli stati postcoloniali, le diseguaglianze eclatanti e mai risolte nelle società di origine, la militarizzazione autoritaria e gli spostamenti coatti di popolazioni civili.
Invece di immaginarsi le grandi battaglie della guerra dell’anello di fronte al cancello nero di Mordor, converrebbe inquadrare il jihadismo transnazionale come un prodotto delle grandi contraddizioni del ventesimo secolo, ad esempio come quelle che hanno portato Abdallah Yusuf Azzam e altri esponenti ispirati al pensiero di Muhammad Farag o di Mawdudi a trovare nelle retrovie del conflitto afghano degli anni Ottanta (quello contro l’Unione Sovietica) l’incubatore di una concezione di jihad come grande scontro globale tra credenti e nemici della fede. Erano i tempi del film Rambo III, in cui i mujahidin (ossia letteralmente “coloro che combattono il jihad”) impegnati in combattimento contro le truppe sovietiche venivano presentati come i “buoni” della situazione da difendere e aiutare.

Si potrebbe disquisire a lungo sulle ragioni e la natura della propaganda jihadista (come per esempio fanno egregiamente studiosi quali Olivier Roy e Alberto Ventura), magari soffermandosi sull’idea distorta di un rinnovamento della società attraverso il fuoco purificatore della violenza, ma in fondo la considerazione più pressante è questa: la “guerra al terrore” voluta da George W. Bush e da tutta l’area “neocon” americana è stata un enorme fallimento. Essa ha confuso la necessità di ribadire i valori della libertà e di fare fronte alla galassia del terrore jihadista, affrontandone le cause profonde, con l’obiettivo di combattere il cosiddetto “asse del male” e di riscrivere i rapporti di forza nel mondo, a cominciare dalla creazione di una nuova mappa del Medio Oriente a misura degli interessi americani.

Da questo occorrerebbe forse ripartire affinché, oltre all’espressione del cordoglio e del trauma, si possa iniziare un ragionamento più ampio sul tema della guerra e della violenza nelle relazioni internazionali. Converrebbe forse rivedere gli undici episodi girati da undici registi di paesi diversi nel film intitolato “11 settembre 2001”, lasciando decantare a lungo le parole finali con cui esso si conclude.

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