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L'analisi

Agenti di polizia penitenziaria aggrediti in carcere: serve una dirigenza di reparto

Analisi e considerazioni sul ruolo dell’agente di reparto, e sulla necessità dell’istituzione di una dirigenza di reparto, dopo i fatti di pestaggio a atti violenti, fughe e spaccio, in molte carceri, compresa la Casa Circondariale di Bergamo

Quello che stupisce non è tanto la serie di pestaggi, fughe, ed aggressioni ad agenti di polizia penitenziaria, ma la richiesta di un importante sindacato di categoria di chiedere un presidio di controllo in carcere, per quanto attiene lo smercio della droga tra detenuti. Un vero atto di coraggio, quello di un organo sindacale O.S.A.P.P (Organizzazione Sindacale Autonoma polizia Penitenziale), che ammette una cosa grave all’interno di una struttura che ha il compito di contenere persone per rieducarle; impensierisce il potere della droga di invadere in modo massiccio anche le carceri, in quanto il bisogno di droga è superiore ad ogni barriera.

Ci si dovrebbe imporre ogni sforzo istituzionale per porre fine a questo stato di cose; lo strumento unico potrebbe essere la ristrutturazione totale e immediata dell’attuale organizzazione e operatività all’interno delle sezioni carcerarie, per definire in modo netto, prima ancora che obbedendo al dettato costituzionale della rieducazione, la scissione senza se e ma, tra il lecito e il proibito.

Questo necessità non è più rinviabile, in quanto coinvolge tutti gli operatori della custodia che a male voglia o per torsione /estorsione, concessioni o distrazioni, temono più che verso loro stessi, ritorsione dei clan dei detenuti, verso i propri familiari.
È allora lecito domandarsi quanti siano gli operatori coinvolti ma ancora di più perché l’illegalità in carcere è divenuta sistema?
I fatti dei pestaggi violenti di Santa Maria Capua Vetere ad opera di agenti verso detenuti, sono inconfutabili, orribili e non giustificabili, ma facilmente spiegabili con una situazione di frustrazione e/o di ricatto ai quali, gli agenti di polizia penitenziaria quotidianamente possono essere sottoposti.
In queste situazioni quotidiane di conflitto, si decide chi è il buono chi è il cattivo, cosa è legale cosa non lo è, con l’unica certezza che rimane che è quella di essere gestori del punire o gratificare su convinzioni personali, o peggio per interessi personali.

Lo stesso linguaggio utilizzato in carcere diventa, esso stesso, veicolo di conflitto tra detenuti ed agenti di reparto, che si pensa risolvibile dando ragione o all’una o all’altra parte, quasi fossero due entità separabili e non comunicanti.
Ciò determina una scelta di campo che se rafforzata da atti scritti, fa prevalere una teoria sull’altra, e come si sa, le ideologie non hanno come fine il buon esito di un’azione, ma solo la prevaricazione di una parte sull’altra, somministrando poi la giusta punizione.

Quindi personalismi e potentati personali diventano i gestori della situazione, divenendo la vera politica programmatica carceraria, la quale si forma all’interno di convinzioni personali prive di ogni fondamento di potere legale, ma fondate sulla rivalsa e sulla frustrazione personale e sull’uso della forza e della vendetta.

Ma quale forza? Perché deve sempre essere quella fisica? Esistono altre forze come quella della persuasione, della comprensione, del riconoscimento, dell’ascolto, del confronto, del rinviare, del sorvolare, dell’agire con scienza e coscienza, del confronto.

In carcere esiste democrazia, ma considerata come uno strumento proprio affinché le maggioranze, in questo caso i detenuti, non cambiano e restino i cattivi. Dall’altra parte invece, la minoranza, intesa come chi comanda, gestisca l’ordine a suo piacimento usando tutti gli strumenti, anche fisici, per ottenere obbedienza, affinché si perda il potere della casta detentiva, potere che proviene dall’esterno, da quanto riesce a fare pressione da esterno-interno, dalla tipologia di reato e quanto clamore ha suscitato sui mass media.

Questo sforzo detenuti/agenti di custodia di ottenere e gestire l’ordine all’interno della vita delle sezioni favorisce le anteposte posizioni, spesso costituite in clan di potere avverse e con interessi insanabili, favorisce l’odio di status, di casta, di appartenenza non solo tra detenuto e custode ma tra agente di reparto e gerarchia penitenziaria, in particolare dopo le nuove nomine dirigenziali dell’amministrazione penitenziaria. Una ulteriore incrinatura, questa, che va ad incidere nell’operare giornaliero, peraltro di un lavoro tra i più delicati che la Costituzione affida a degli uomini: il “tutelare“ un assembramento di altri uomini che hanno mostrato propensione, almeno nella vita trascorsa, a non rispettare le regole sociali e giuridiche.

Per portare avanti e rafforzare questo odio occorre nutrirlo costantemente. In che maniera? Con l’ accondiscendenza e il convincimento, la gratificazione o esaltazione non per quello che si fa ma per quello che si è, sia come detenuti che come polizia: per il recluso la notorietà del crimine o di appartenenza danno visibilità e potere all’interno della sezione, per la polizia di reparto la frustrazione e la non considerazione divengono strumenti di non affermazione di sé, superato tramite l’eccesso violento nell’affermare un ordine o un comando ricevuto da altri , che diviene anche affermare di se stessi.
Se non si procede ad un cambiamento di rotta tanto forte quanto repentino, lo stato di conflittualità/nemicità tenderà ad aumentare, come la necessità di fuga dal posto di lavoro in ambito penitenziario, per lavori maggiormente considerati gratificanti verso altre amministrazioni.

Che significato ha promuovere dei funzionari di polizia penitenziaria per allocarli altrove, fuori dal carcere? Questo non rappresenta una buona gestione delle risorse; occorre invece che tutto rientri nei precetti istituzionali definiti nelle leggi quadro, senza pindariche invenzioni che non abbiano l’interesse, in questo caso la struttura carcere.

Una realtà come quella carceraria va vissuta, condivisa, considerata ancora di più se si hanno maggiori responsabilità, altrimenti non hanno senso tanti dirigenti ammassati negli uffici a dare disposizioni a catena, fino ad arrivare all’ultimo agente appena arruolato che si sbrighi da solo lo screditato lavoro di reparto!

La proposta del sindacato di categoria, per l’istituzione di un organo che contrasti l’uso della droga in carcere, va considerato in modo positivo, in quanto rappresenta un atto indagativo-punitivo per stroncare il commercio della droga ed anche altri tipi di illeciti, ma questo dovrebbe essere successivo ad un’azione preventiva, come la riorganizzazione-reingegnerizzazione della operatività nel reparto, ponendo a capo dei reparti custodiali i nuovi dirigenti di Polizia Penitenziaria.
Ai neo dirigenti di Polizia Penitenziaria dico che viene loro offerta, come l’opportunità migliore che possa esservi data quella di dirigenza di reparto, di essere la reingegnerizzazione di quella parte del carcere ora riconosciuta come punizione: il reparto.

Spetterà loro il compito di trasformarlo in un luogo di vita possibile, nel riportare legalità, rispetto, attenzione, e ancora di più nel dare una risposta personalizzata al bisogno del carcerato sia in modo collettivo che individuale. Il compenso sarà gratificazione e visibilità alta e reale, perché fatta dal passa parola e dal riconoscimento collettivo che vale più di un articolo di giornale o una passata televisiva.

*Antonio Nastasio è un ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza.

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