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La lettera

Bergamo non è più accogliente? Colpa del degrado di cui l’immigrazione è fra le principali responsabili

Il professor Alessandro Angelo Persico risponde all'articolo "Cara Bergamo perché non sei più accogliente".

Riceviamo e pubblichiamo una lettera del professor Alessandro Angelo Persico. 

Gentile redazione di BergamoNews,
rispondo all’articolo di Davide Agazzi “Cara Bergamo, perché non sei più accogliente?”, pubblicato sulla vostra testata on-line il 26 agosto. Mio unico intento è suscitare un dibattito che, su temi complessi quali l’immigrazione, simili scritti liquidano attraverso una facile retorica emotiva, peraltro ampiamente confutata dalla realtà.

Nello scritto, il ricorso a sant’Alessandro appare una sottile mistificazione, utile a spostare il discorso sul presente verso toni morali che per nulla si addicono alla comprensione di fenomeni storici e sociali. Prima di tutto, ammesso che sia davvero esistito, da un punto di vista documentario sant’Alessandro martire è attestato solo dall’alto-medioevo. La sua figura resta sbiadita e il suo culto va inteso in senso agiografico, più che storico. Secondariamente, appare quantomeno improprio considerarlo un extracomunitario: sia perché questa definizione veicola un concetto moderno ed europeo di cittadinanza; sia perché, pur tebano, dopo la promulgazione della Constitutio antoniniana, editto del 212 d.C. firmato da Caracalla, Alessandro – come tutti gli uomini liberi dell’Impero – godeva di pieni diritti civili. Peraltro, l’estensione della cittadinanza, fin dalla sua concessione ai popoli italici e ancor più con la fine della Repubblica, intendeva soprattutto romanizzare la periferia. Rispetto a certe improprie analogie giornalistiche, assecondava esigenze fiscali e una centralizzazione del potere che muoveva in direzione opposta all’integrazione oggi prevalente, cioè alla valorizzazione del diverso portato dallo straniero.

L’articolo si apre con una forzatura. Sant’Alessandro diventa l’extracomunitario proveniente dall’Africa che ci insegna l’accoglienza; i bergamaschi un popolo il cui humus religioso – secondo l’autore oggi inaridito – è l’ospitalità. L’agiografia viene spacciata per storia, attraverso una tradizione che avvalora stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni, per quanto positivi. Prima insiste sulla diaspora bergamasca, destoricizzata per forzare un confronto con i recenti processi migratori e suggestionare un’identificazione con gli attuali migranti; poi, sostituita la morale alla descrizione oggettiva e al giudizio critico, introduce come integrazione dell’altro l’accoglienza dei viandanti, viandanti che tuttavia, come suggerisce l’etimo, vengono ma poi se ne vanno, senza pretendere di stabilirsi dove viaggiano. In questo modo, il passato accredita un dogma sociale, la diversità che arricchisce, sempre, un dogma riassunto dalla conclusione sull’“integrare altre culture” che “significa arricchire la nostra”, come “dice la storia”, quella di Agazzi però, non quella vera, che è un po’ più complessa. Nella sua, ad esempio, si dimentica che l’emigrazione italiana fra fine Otto e inizio Novecento ha riguardato prima di tutto Argentina, Brasile, Uruguay, Cile, Messico, etc., paesi senza alcun welfare state e, a eccezione degli USA, nient’affatto “più ricchi e più sviluppati del nostro”. La storia dell’emigrazione italiana – qui troppo lunga da ripercorrere – assume sfumature populiste, con slogan che forzano un giudizio aprioristico sul presente.

La verità, infatti, è assai differente. Da sempre e soprattutto negli ultimi anni, Bergamo è stata terra d’accoglienza, in termini assoluti, proprio come la intende Agazzi. Il problema, quindi, è un altro. L’accoglienza che è stata da tutti elogiata come un modello per l’intera nazione, esaltata da quanti celebravano il multiculturalismo come rinascita del paese, si è alimentata spesso di propaganda. Di fronte alla crisi migratoria, l’eccezione del profugo che scappa dalla guerra, del povero che muore di fame, del fragile da proteggere, tanto sui giornali, quanto nelle iniziative dei comuni e della diocesi, è stata ingigantita fino a coprire la reale natura del fenomeno e, talvolta, perfino il malaffare. A prescindere dagli esiti giudiziari, lo scandalo che ha travolto Ruah e Caritas è stato sopito in pochi giorni perché scuoteva tutto un ambiente, senza così alcun confronto sulla conseguenze, sulle ricadute, su un’identità comune che immigrazione e inclusione stanno alterando sempre più in profondità da almeno vent’anni. Riflessione che, del resto, appare inutile e addirittura controproducente se la diversità è sempre arricchente, per cui tutto si risolve con un’integrazione che – come dimostra l’articolo – è solo questione di maggiori spazi e risorse.

Simili mistificazioni, come quelle a sostegno dell’accoglienza contenute nell’articolo di Agazzi, ostacolano e addirittura impediscono discussioni serie e ponderate sui movimenti demografici che hanno investito e investono il territorio. Si nasconde così una provincia da cui molti bergamaschi emigrano perché senza opportunità, portando con sé intelligenza, cultura e civiltà, mentre crescente ormai da vent’anni è un’immigrazione in molti casi depauperante sotto questo profilo. Il tutto dentro a una città immobile, con istituzioni pubbliche e un mondo cattolico che spesso si limitano ad adattarsi al cambiamento, senza governarlo e indirizzarlo attraverso scelte anche onerose, investendo prima di tutto sui suoi abitanti. In alcune circostanze, come durante il boom migratorio, si è preferito assecondare i processi per conservare privilegi, per accrescere consenso, talvolta per consolidare reti e strutture di potere. Di fronte a questo approccio, ogni discorso critico e costruttivo sull’immigrazione, anche da un punto di vista qualitativo e nel lungo periodo, appare impossibile. Viene infatti spento sul nascere attraverso una narrazione sentimentale e, come oggi si usa dire, con un termine fastidioso, “buonista”, un’apologia che scredita ogni altra argomentazione.

Le iniziative che Agazzi denuncia, così come la riqualificazione urbana promossa da Gori, dal Piazzale Alpini alla Malpensata, reagiscono pure – senza ammetterlo – a un degrado di cui l’immigrazione degli ultimi anni è stata fra le principali responsabili. Bisogna però guardare dietro gli edifici. Anziché celebrare l’accoglienza attraverso sant’Alessandro, stigmatizzando certe trasformazioni della urbs che emarginerebbero stranieri e migranti, sarebbe più utile un confronto razionale e oggettivo – quindi senza paraocchi ideologici – sui cambiamenti della civitas, cioè del tessuto cittadino.
Cordiali saluti,
Prof. Alessandro Angelo Persico

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