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L'appello

Sant’Alessandro, il vescovo Francesco: “Accogliamo le famiglie afghane, fuggite dal loro Paese” fotogallery

Il vescovo Francesco Beschi nella sua omelia rimarca come "L’esperienza della fede, illumina e alimenta decisamente la fiducia degli umani, negli umani e tra gli umani. Quando la fede in Dio viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno".

Il tema della fiducia che contraddistingue la festa del patrono di Bergamo, Sant’Alessandro, chiama la comunità cristiana a riflettere sulla propria fede. Così il vescovo Francesco Beschi nella sua omelia rimarca come “L’esperienza della fede, illumina e alimenta decisamente la fiducia degli umani, negli umani e tra gli umani. Quando la fede in Dio viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno”. E si spinge più in là, concretizzando la carità nell’attualità: “Mi faccio portavoce dell’invito della Chiesa italiana a rinnovare l’accoglienza che caratterizza le nostre parrocchie e famiglie nei confronti delle famiglie afghane, fuggite dal loro Paese”.

Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia di monsignor Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, in occasione della festa di Sant’Alessandro.

Cosa c’è di più bello e consolante di avere fiducia di qualcuno e di sentire che qualcuno ha fiducia in noi?
Ma questa bellezza e consolazione sembrano esposte alla precarietà e alla delusione, che alimentano indifferenza, amarezza e a volte anche violenza.
La smentita delle nostre attese, l’inutilità dei nostri sforzi, l‘imprevedibilità di ciò che sfugge al nostro controllo, l’esperienza del male e della malvagità, della morte e della mortificazione, erodono lentamente o travolgono improvvisamente il patrimonio della fiducia in noi, negli altri e in Dio.

Esistono da sempre dei vaccini per quella che è stata chiamata la “pandemia della sfiducia”, ma anche per questi, una dose non basta, l’accessibilità non è scontata e la tentazione del rifiuto irragionevole è sempre in agguato.
Sono i vaccini della scienza e della sapienza, dei valori e della coscienza, del coraggio e della determinazione, della solidarietà e della laboriosità e, finalmente, dell’amore e della speranza. Si tratta di risorse che indubbiamente hanno caratterizzato la nostra terra, la nostra storia, la nostra comunità. Sono risorse che abbiamo riconosciuto efficaci in questo tempo difficile, ma nella consapevolezza trepidante che qualcosa sfugga e superi la loro resistenza.

Sullo schermo della nostra mente si alternano le immagini di medici e infermieri infaticabili e quelle delle migliaia di sepolture silenziose, affidate alla preghiera di un prete da solo; le immagini delle famiglie rafforzate nell’unità e di quelle devastate dalla convivenza; le rappresentazioni del generoso e creativo volontariato e quelle della città svuotata e deserta, la narrazione di coloro che sono rimasti al loro posto nel servizio della comunità e di coloro che il posto lo hanno perduto o non hanno potuto occuparlo.
E poi la ripresa o meglio il rilancio, condizionato, ma non indebolito dalle ondate che si sono succedute: la ripresa economica, sociale, culturale e pastorale. Senza sottovalutare scelte e comportamenti immorali e a volte illegali di coloro che stanno approfittando e sfruttando le debolezze altrui e le possibilità offerte all’impegno e allo sforzo comune, dobbiamo ancora una volta riconoscere le caratteristiche costruttive della nostra cultura, impregnata di cristianesimo, capaci di sostenere la determinazione e la concretezza necessarie in questo frangente.

D’altra parte, avvertiamo che le conseguenze a lungo termine della pandemia, non riguardano solo la salute di coloro che ne sono stati colpiti, ma investono i sentimenti profondi che ispirano e motivano il nostro agire personale, familiare, comunitario e sociale.
Quanto mai pertinente appare dunque, la proposta della virtù di quest’anno, che caratterizza la festa del nostro patrono Sant’Alessandro: si tratta del sentimento e della virtù della fiducia: sentimento, in quanto capace di ispirare la vita; virtù, in quanto scelta da perseguire con perseveranza, soprattutto quando l’esercizio della fiducia viene sottoposto alla prova.
Le articolate proposte che a tutti i livelli accompagnano le celebrazioni patronali, stanno declinando in maniera affascinante le caratteristiche di questa virtù. La solenne celebrazione liturgica della memoria del Santo consente di metterci in ascolto della Parola consegnata da Dio al popolo dei credenti, perché l’intera comunità, formata da cristiani, persone di altra religione e non credenti, la possa raccogliere.

È una Parola che trasmette e genera una sorprendente rivelazione: Dio ha fiducia dell’uomo, esponendo Se stesso alla possibilità della smentita e del tradimento. “Vi ho chiamati amici” dice Gesù, proprio alla vigilia del tradimento e dell’abbandono. E ancora: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Proprio nello stesso contesto, avviene la consegna fiduciaria della sua stessa missione e della sua riuscita.
A fronte di ogni ripiegamento, di ogni inadeguatezza, di ogni indifferenza o rifiuto, di ogni fallimento e disperazione, Dio, nella persona di Gesù, manifesta la sua ostinata fiducia in un’umanità che pure è segnata dal peccato e dalle sue conseguenze.

Alla luce di questa sorprendente rivelazione, siamo interpellati sulla nostra fiducia in Dio. Non si tratta di un istintivo ottimismo o dell’evocazione fatalistica di una provvidenza capace di aggiustare il mondo, esonerandoci dalle nostre responsabilità: ben diversa da quella biblica o di manzoniana memoria che avremo modo di gustare nella rappresentazione di sabato sera proprio nella nostra Cattedrale.
Si tratta di una scelta radicale, che dà forma all’intera esistenza e, inevitabilmente, se la si vuole viva e significativa, va riproposta a noi stessi, ancor prima che agli altri.
Siamo proprio noi credenti a doverci interrogare su quella forma della fede che è fiducia in Dio, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, nella luce e nell’oscurità.

A sostenere questo sentimento e questa scelta contribuisce l’esercizio della memoria: la memoria dei santi, la memoria dei nostri maestri e testimoni, illustri e sconosciuti, la memoria di Dio, consegnataci dalla Parola e dall’Eucaristia.
Ricordate le gesta compiute dai nostri padri ai loro tempi e traetene gloria insigne e nome eterno. Così, di seguito, considerate di generazione in generazione: quanti hanno fiducia in Lui non soccombono.
In questi giorni, il Santo Padre ha raccomandato il ritorno all’Eucaristia: “Il settimanale radunarsi nel «nome del Signore», che sin dalle origini è stato avvertito dai cristiani come una realtà irrinunciabile e indissolubilmente legata alla propria identità, è stato duramente intaccato durante la fase più acuta del propagarsi della pandemia… la domenica, l’assemblea eucaristica, i ministeri, il rito emergano da quella marginalità verso la quale sembrano inesorabilmente precipitare e recuperino centralità nella fede e nella spiritualità dei credenti”.
La fede dei cristiani e la loro fiducia in Dio, passa dunque attraverso la vicenda, le parole, i segni, la morte e risurrezione di Gesù
Il cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell’amore al Padre che ci ama, così come Gesù ce lo ha rivelato.

L’esperienza della fede, illumina e alimenta decisamente la fiducia degli umani, negli umani e tra gli umani. Quando la fede in Dio viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno.
Abbiamo udito le parole di Gesù: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
Se possiamo immaginare una fiducia senza amore, non potremo immaginare un amore senza fiducia.
È evidente che in condizioni di amore reciproco e riconosciuto, l’esercizio della fiducia è quasi istintivo, come quello di un bimbo che si sente accolto ed amato. Ma non sempre e non per tutti è così. La fiducia viene sottoposta alla prova della delusione, del tradimento, dell’abbandono. La fiducia è un credito, che non viene mai garantito in modo esaustivo.

Dare fiducia è indispensabile per vivere, «è il presupposto su cui si regge la società moderna, e quando qualcuno tradisce la nostra fiducia i danni possono essere notevoli. Ma l’alternativa, ovvero accantonare del tutto la fiducia per difendersi dall’inganno e dagli atteggiamenti predatori, è ancora peggiore». Guardare con sospetto cronico le persone attorno a noi non rende il mondo più sicuro, lo rende invivibile.
È necessario dunque, nutrire costantemente la virtù della fiducia con il pane della verità, della fedeltà e del perdono.

Il pane della verità in ogni campo: la verità nelle relazioni personali, nelle relazioni sociali ed ecclesiali, nel mondo dell’informazione. Proprio ieri, il Santo Padre denunciava l’ipocrisia nella Chiesa e nella convivenza umana: “Cosa è l’ipocrisia? Si può dire che è paura per la verità. L’ipocrita ha paura della verità… Ci sono molte situazioni in cui si può verificare l’ipocrisia. Spesso si nasconde nel luogo di lavoro, dove si cerca di apparire amici con i colleghi mentre la competizione porta a colpirli alle spalle. Nella politica non è inusuale trovare ipocriti che vivono uno sdoppiamento tra il pubblico e il privato. È particolarmente detestabile l’ipocrisia nella Chiesa…”

Il pane della fedeltà è altrettanto necessario: spesso la fedeltà è vissuta semplicemente come conservazione, una fedeltà paurosa; nello stesso tempo la fedeltà ha subito una forte svalutazione in nome dell’autenticità, una fedeltà a tempo. Il pane della fedeltà è capace di rigenerare la fiducia anche nella situazioni più dolorose e difficili. “Mola mia” ci ripetiamo: grande espressione di fedeltà non solo al lavoro, all’impegno, alla resistenza, ma soprattutto alle persone. “Io ci sono… ci sono per te … ci sono per voi”.

Il pane del perdono: si tratta della fiducia di Dio e dell’uomo offerta a chi l’ha tradita. La fede afferma anche la possibilità del perdono, che necessita molte volte di tempo, di fatica, di pazienza e di impegno; perdono possibile se si scopre che il bene è sempre più originario e più forte del male, che la parola con cui Dio afferma la nostra vita è più profonda di tutte le nostre negazioni.

Ho chiesto alle comunità cristiane di continuare a servire la vita dove la vita accade, con particolare premura per la vita familiare. La famiglia dove si nasce, si cresce, si vive, rappresenta l’esperienza fondamentale per generare e nutrire il sentimento e la virtù della fiducia in Dio e negli umani e merita tutta la nostra considerazione e cura. Una famiglia che non si chiude in se stessa, ma condivide speranza con altre famiglie. Mi faccio portavoce dell’invito della Chiesa italiana a rinnovare l’accoglienza che caratterizza le nostre parrocchie e famiglie nei confronti delle famiglie afghane, fuggite dal loro Paese.

Insieme a questa premura, ritengo una profezia da non sottovalutare, quella rappresentata dalla prospettiva dell’”amicizia sociale” che il Papa ha più volte evocato, fino all’ultima Lettera enciclica “Fratelli tutti”. In questa luce, la collaborazione rispettosa e cordiale tra le Istituzioni che rappresentano la società e lo Stato, rappresenta un valore che alimenta e comunica fiducia.
Sappiamo bene che ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la comprensione e l’impegno reciproci diventano la condizione dove i conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita» (245)

Mi conforta concludere con le parole del Santo Papa bergamasco, che sembrano raccogliere in sintesi luminosa il sentimento e la virtù della fiducia: “È una grande grazia il farmi comprendere che le anime dei figli del popolo sono buone assai, ma ci vuole garbo, pazienza e umiltà. Beati i miti, perché possederanno la terra; il mondo è molto più cattivo ma anche molto più buono di quanto noi pensiamo, e il compito nostro sacerdotale più che di sciupare lunghe ore in continui piagnistei e recriminazioni che a nulla giovano, è di lavorare e di cogliere il bene dovunque si trovi ed alla luce incontaminata dei principi, elevarlo e moltiplicarlo. Io faccio la figura dell’ottimista impertinente: eppure non so essere diversamente. Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualche cosa di bene. E siccome noi siamo chiamati a fare il bene più che a distruggere il male, ad edificare più che a demolire, per questo parmi di trovarmi a posto e di dover proseguire per la mia via di ricerca perenne del bene, senza più curarmi dei modi diversi di concepire la via e di giudicarla”. (11 febbraio 1918)

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