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L'intervista

Maddalena Crippa: “Io, ancella di Dante e del teatro di parola”

Attrice colta e raffinata, ha regalato al pubblico della valtellina indimenticabili recital danteschi. Un omaggio superlativo al divino poeta nel 700esimo della morte

Dante basta a se stesso, la sua lingua parla da sola all’uomo di ogni tempo senza bisogno di apparati, commentari, parafrasi. Se non ci credete, suggeriamo di ascoltarlo dalla voce di Maddalena Crippa, capace come poche di restituire la parola del Poeta nella sua evidenza originaria.

Una voce di donna che, per il rigore e la profondità che la caratterizza, si fa universale, al di là di ogni genere, al di là di un’inveterata tradizione per cui interpretare la Commedia è roba da uomini. Tanto per capirci, lei è stata anche la prima donna a interpretare a teatro le canzoni di Giorgio Gaber.

Attrice colta e raffinata, Maddalena Crippa ha regalato al pubblico di Aprica, di Tirano e di Teglio in questa estate (per la rassegna Teatro Festival Valtellina) alcuni indimenticabili recital danteschi.

Un omaggio superlativo al divino poeta nel 700esimo della morte, che ha fatto vivere al pubblico un’esperienza intellettuale e umanissima, in grado di muovere gli affetti e scuotere le coscienze con la pura forza della parola.

Fin dalle prime terzine dell’Inferno, e poi attraverso canti scelti di tutta la Commedia, la lettura intensa e sobria, incisiva e antiretorica dell’attrice ha accompagnato l’uditorio in un viaggio di intima commozione e di civile sdegno senza ricorso ad artifici o a riflessioni esegetiche, ma semplicemente sul filo di un’emozione tesa e sempre misurata al portato della parola dantesca.

Abbiamo avuto il privilegio di parlarle dopo uno spettacolo.

Lei ha un repertorio teatrale vastissimo, da Shakespeare a Pirandello a Brecht, ma ultimamente ha omaggiato anche Alda Merini e Etty Hillesum con pubbliche letture. Quando nasce la sua passione per Dante?

Dante l’ho riscoperto da grande, mentre a scuola non l’avevo conosciuto bene. Sono partita con l’Inferno e il mio cavallo di battaglia è diventato il canto 26, quello di Ulisse. Allora ho cominciato a lavorare agli altri canti, che ho presentato in Germania e in diverse occasioni. Per il 700esimo di Dante ho affrontato tutto l’Inferno e mi piacerebbe proprio una volta avere la possibilità di fare l’intera Commedia. Ovviamente richiede uno studio serio, profondo e in questo sono stata aiutata moltissimo da mio marito Peter Stein che è un grande regista ed è anche un grande conoscitore delle lingue: parla tedesco, italiano, francese, inglese, capisce anche un po’ di russo e ha un rispetto totale per gli autori. È lui che mi ha insegnato a leggere Dante, Ariosto, Tasso. Strano? No, perché gli italiani prediligono il canto della rima, ma a quel punto si perde il senso. Occorre sostenere la lingua con un approccio etimologico molto sensibile e rigoroso.

È anche per questa sensibilità linguistica che la sua recitazione è così limpida, così chiara?

È una dote che ho perfezionato negli anni: fa parte di quel rispetto e di quell’analisi totale del materiale che ritengo indispensabile. Anche la parola più ostica deve potere “passare” al pubblico e la lingua di Dante non è mica facile, non la si può leggere a prima vista. Ma se te ne impossessi e svisceri la materia linguistica e la possiedi, allora si può fare. Per esempio a un certo punto il poeta scrive “maggio”, che non è il mese ma significa “maggiore”: allora sei tu che devi colorarla con il suo significato, sostenendo e intonando la parola, così che la si capisca perfettamente. Per questo alla fine non servono i pubblici commentari, perché tu sai esattamente cosa vuole dire il poeta e lo sai fare riverberare.

Di fronte a un gigante come Dante l’attrice cerca di farsi da parte o preferisce metterci del suo?

Sono un’ancella al servizio di Dante, per cui quello che deve uscire è lui: è Dante che mi conduce nella lettura, a seconda che usi una metafora, un dialogo diretto, una descrizione. E tutto questo va capito, approfondito, conosciuto stando molto indietro con i propri sentimenti. Il mio apporto è quello umano, ma lo presto a ciò che richiede il testo. Col tempo mi sono affinata in questa dimensione di servizio, di servire gli autori – che siano Shakespeare, Cechov, Pirandello… Devo mettermi totalmente da parte e dopo, quando c’è il momento della commozione o dell’emozione, se occorre, devo saperci mettere la vita. Trovo così bello quando una cosa ostica diventa semplice. Soprattutto quando si tratta dei nostri poeti, della nostra lingua: con Dante, Ariosto, Tasso non leggi una traduzione ma dai vita a qualcosa che è originale. E diventa un’esperienza aperta a tutti.

Davvero è aperta a tutti?

Direi di sì. Per esempio quest’anno ho portato a Fiesole l’Armida della Gerusalemme liberata di Tasso, è stata un grandissimo successo. L’avevo preparata con accompagnamento musicale costruito ad hoc, ma adesso che i costi pesano per la crisi ho deciso di leggerla soltanto, senza musicisti. Eppure, se la lingua del Tasso la servi in questo modo, si fa tridimensionale, non è più solo qualcosa che viene letto, ma che viene incarnato. Per godere dei grandi autori non occorre avere fatto l’università, sapere cosa andrai a vedere… l’unico strumento è quello dell’attenzione, della voglia di esserci. Per me il teatro popolare nel verso senso della parola è questo, non devi avere patentini per capire. Quando nel 2009/2010 portammo in scena “I Demoni” di Dostoevskij fu una scommessa coraggiosa, perché era una maratona di 12 ore non-stop con 30 attori: uno spettacolo potente firmato da Peter Stein che coinvolse totalmente il pubblico, a dispetto della durata. Ricordo che nel Borgo di San Pancrazio in Umbria, dove andò in scena per la prima volta, una barista di Amelia che mai era stata a teatro in vita sua ne rimase stregata.

Quanto è necessario oggi il teatro di parola?

È una necessità totale, io sono paladina del teatro di parola. Il teatro è nato così in Grecia e la parola è tuttora la cosa più complessa da rendere: parla della nostra condizione umana, delle nostre relazioni come individui e come esseri sociali. Ma è importante in presenza, non con lo streaming. E’ qualcosa di irripetibile perché è vivo, è fatto di persone vive davanti a persone vive. Solo così si può sviluppare quella unità di essere umani – che ci è negata ormai – cioè di pensiero, intelligenza, sentimento, emozione. Oggi siamo costretti a impulsi esagerati e a distrazioni continue. Mentre assistere a qualcosa di realizzato teatralmente ti dà un’energia incredibile, perché sei ricollegato a te stesso ma all’interno di una comunità e non in solitudine. Ora che sembra che il teatro non si possa più fare, sono specializzata nella lettura. Ma per me il teatro non è il monologo, la narrazione che ormai si fa per ragioni economiche: il teatro è quando siamo tanti in scena e lì si gioca la la contraddizione, la complessità della nostra vita di esseri in relazione. Io sono salita su un palcoscenico a 12 anni e ho avuto poi la fortuna di incontrare grandissimi maestri: forse è questo che oggi manca, oltre al fatto che con la crisi adesso è tutto fermo… in una situazione così è molto difficile programmare.

Lei ha cominciato giovanissima. A Bergamo ricordiamo una sua performance del 1981 al Donizetti.

Come no, certo, si trattava della “Venexiana”, con la regia di Corbelli. Fu uno spettacolo molto bello, ero in scena con Alida Valli. Erano i tempi in cui si faceva ancora prosa al Donizetti e si portavano ottime produzioni italiane. Ne ho un ricordo felice.

Sta lavorando ad altri progetti?

Non ho progetti immediati, i teatri adesso sono guardinghi, sono pieni di cose che hanno provato e non sono andate in scena. E allora io leggo: l’Odissea, l’Eneide, Dante, Ariosto…A fine agosto leggerò a Missaglia la Didone dell’Eneide, un racconto mediterraneo. Poi sarò alla comunità di Bose con i diari di Etty Hillesum, che sono fantastici: è un’esperienza intima e di una potenza.. Etty è una maestra di vita e in questo periodo così nero, così negativo, ci può fare molto bene.

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